I verbali inesistenti della task force di regione Lombardia sul Covid-19. Le mail a Roma inviate da Fontana e dai suoi fedelissimi. Le chat dei dirigenti della sanità regionale. La super consulenza della procura di Bergamo, la quale evidenzia il nesso tra mancata zona rossa e aumento dei morti e ricostruisce la catena di comando che ha lasciato circolare il virus per settimane, senza ostacoli. Tutto questo conferma un dato, al di là degli esiti giudiziari: nessuno tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo 2020, né governo né regione, ha chiesto la zona rossa per la Val Seriana e i paesi di Nembro e di Alzano Lombardo. Qui e in tutta la provincia di Bergamo in meno di due mesi sono morte di Covid più di 6mila persone.

Se ci saranno responsabilità da codice penale lo diranno i magistrati, che stanno per chiudere l’inchiesta sulla gestione della prima fase dell’emergenza Covid in Lombardia. Di certo c’è una responsabilità politica di chi ha deciso in quei giorni di non alzare il livello delle restrizioni e lasciare circolare liberamente le persone e con loro il virus.

I verbali inesistenti

Di quelle settimane cruciali, purtroppo, non è stato verbalizzato nulla delle riunioni della task force lombarda, istituita a partire dal 20 febbraio 2020, dopo l’identificazione del paziente 1 di Codogno, Mattia Maestri. Eppure quell’unità di crisi fu chiamata a prendere decisioni vitali per milioni di cittadini. Come emerso durante i lavori della Commissione regionale d’inchiesta sul Covid in Lombardia «quei verbali non furono mai redatti né approvati».

Nulla è stato consegnato alla Commissione regionale, hanno denunciato le opposizioni, rispondendo al presidente leghista Attilio Fontana che in aula durante le audizioni a porte chiuse aveva dichiarato: «I verbali del Cts (lombardo, ndr) credo che siano stati redatti tutti e che, come sempre, siano a disposizione di chi li richiede. La richiesta la rivolga a chi è competente, perché – se mi consente – non sono io a rilasciare le copie dei verbali. Ho tanti compiti ma quello non ce l’ho. Non abbiamo sbianchettato niente». Ma i verbali della task force lombarda sulla gestione della prima fase pandemica di fatto non esistono.

Ecco perché hanno ancora più valore gli atti ufficiali, le mail e le testimonianze raccolte dagli inquirenti in questi due anni e mezzo di indagine. Tra questi documenti c’è sicuramente la super consulenza affidata a un pool di esperti: il medico legale Ernesto D’Aloja, Daniele Donati, ex direttore Asl di Pavia, e il professore Andrea Crisanti, il microbiologo dell’università di Padova, che si è distinto per aver isolato con successo il focolaio veneto di Vo’ Euganeo, oggi è senatore del Pd.

La relazione consegnata ai pm di Bergamo il 14 gennaio di quest’anno è la ricostruzione delle prime settimane di contagi, con omissioni, superficialità, attese che sono costate carissimo alla Lombardia. In quelle pagine c’è un passaggio esemplare per capire il metodo con cui regione Lombardia ha gestito la prima fase della pandemia in Italia. Un momento di grande confusione e indecisioni, a Milano come a Roma. Un’inerzia durata diciassette giorni che ha trasformato quell’area nella Wuhan d’Italia. 

I consulenti della procura, infatti, ricordano come una settimana dopo il primo caso di Codogno, al giorno 28 febbraio nei comuni di Alzano e Nembro si contavano rispettivamente 11 e 24 casi positivi. Aree tra le  più colpite della Lombardia, evidenziano. 

Non è stato sufficiente neppure questo a convincere il presidente Fontana, l’assessore al Welfare Giulio Gallera, il governo di Giuseppe Conte a chiudere la zona.

Il 28 febbraio è anche il giorno della mail inviata da Fontana alla protezione civile e alla presidenza del consiglio. Mail svelata da Domani la settimana scorsa, diventata un caso politico. Il testo contenuto nel messaggio è chiaro: mantenere le misure della settimana precedente. Nessuna richiesta, dunque, di restrizioni massicce, né per la provincia di Bergamo né per la Lombardia. Dopo l’articolo la reazione dell’opposizione, dal Pd, con in testa Pierfrancesco Majorino, e dei Cinque Stelle: hanno chiesto conto alla giunta leghista. 

La difesa del presidente

Fontana ha accusato Domani di aver omesso un passaggio dell’allegato, fatto non vero: nell’articolo è citato lo studio inviato a corredo del messaggio, in cui peraltro emerge la consapevolezza della regione che di fronte a un R0:2 (indice di contagio) la soglia critica sarebbe stata superata. Sebbene gli scenari fossero apocalittici si decide di non chiedere la zona rossa in provincia di Bergamo.

«Fonti di regione Lombardia», citate da alcune testate dopo l’articolo di Domani, spiegavano come il presidente Fontana in realtà volesse provvedimenti più duri, ma che nessuno da Roma gli avesse mai risposto: la tesi è che nei primi giorni della pandemia (dopo il 20 febbraio e il primo caso accertato di Codogno, provincia di Lodi) la Lombardia avesse chiesto a Conte di poter istituire autonomamente zone rosse e gialle. La risposta, hanno fatto sapere fonti regionali, sarebbe avvenuta «in videoconferenza» e fu che «si potevano prendere misure solo parziali e provvisorie, senza blocco delle attività produttive» fino al successivo Dpcm.

A difesa delle scelte di Fontana si cita la mail del 23 febbraio inviata al capo della protezione civile, Angelo Borrelli, e rimasta «senza risposta». In quest’ultima la Lombardia aveva forse chiesto la zona rossa per la regione o per aree individuate come potenziali focolai? Macché. È una lettera che ha come oggetto «Disposizioni per la regione Lombardia» in cui il direttore generale al Welfare, Luigi Cajazzo, chiede alla protezione civile di dare indicazioni alla regione su come istituire le zone gialle o rosse. 

Nel testo della mail si legge: «Come da accordi si invia proposta di ordinanza di regione Lombardia», ma in pratica si tratta di una richiesta di delucidazioni, ovvero di una mail interlocutoria. Non è per nulla, come vorrebbero far credere le fonti regionali citate dai giornali, una accorata richiesta di provvedimenti drastici. 

Fontana in Commissione d’inchiesta regionale ha dichiarato che questa mail del 23 febbraio 2020 è stata inviata «a commento del decreto-legge nel quale si parlava del termine “nelle more”, una richiesta per consentire a Regione Lombardia di procedere alla determinazione di zone rosse e gialle in base all’andamento epidemiologico. Come sapete il decreto-legge prevede che misure dei Presidenti di Regione possono essere emanate soltanto nelle more (ovvero nell’intervallo di tempo tra l’avvio di un iter burocratico-giuridico e la sua conclusione, ndr) dei Dpcm. In quei giorni more non ce ne furono, perché praticamente i Dpcm venivano emanati quotidianamente». 

Oggi regione Lombardia lamenta di non aver mai ricevuto risposta dall’allora capo della protezione civile Borrelli a quell’email di Cajazzo del 23 febbraio. Tuttavia è bene ricordare che dopo il Dpcm del 23 febbraio 2020, ne è stato emanato un altro il 25 febbraio, poi sono passati cinque giorni prima che il governo emanasse un nuovo decreto, il primo di marzo: la regione dunque avrebbe avuto la possibilità di intervenire in quel lasso temporale e questa email del 23 febbraio non è in alcun modo una richiesta di zona rossa, come vorrebbe far intendere la giunta Fontana.

Secondo quanto ricostruito dai consulenti della procura, il decreto legge numero 6 del 23 febbraio stabilisce che anche regioni e comuni possono in caso di emergenza adottare misure di distanziamento sociale nelle aree in cui risulta positiva almeno una persona. 

Giulio Gallera, contattato da Domani, sulla mail del 23 febbraio ha risposto seccato: «Chieda a chi l’ha scritta la motivazione di questa mail, non a me», replica l’ex assessore, «nessuno di noi il 23 ha mai chiesto la zona rossa, c’era un solo caso ad Alzano, figurarsi. Neanche per la Lombardia, avevamo così pochi casi nella zona di Codogno, nessuno di noi immaginava di chiuderla». 

Allerta rossa

Intanto i dati che arrivavano da Alzano e Nembro, ricordano i consulenti della procura, raggiungono un livello preoccupante il 28 febbraio. Dati reali, in mano alla regione. Lo stesso giorno Fontana scrive alla protezione civile e alla presidenza del consiglio: non spinge per la zona rossa, ma chiede il mantenimento delle misure della settimana precedente. Perché? Gallera ricostruisce così i fatti che hanno preceduto l’invio della mail del 28 febbraio. «Quel giorno avevamo convocato un tavolo per il mantenimento delle misure, convochiamo i nostri esperti, perché avevamo la sensazione che il governo volesse diminuire l’intensità delle misure, come avvenuto con il Dpcm del governo del primo di marzo», dice. Aggiunge che le proposte della giunta regionale erano in controtendenza rispetto all’andazzo generale, con il sindaco di Milano che «andava in giro a dire la città non si ferma e Nicola Zingaretti giunto a sostenerlo con tanto di aperitivo tra la gente», accusa l’ex assessore. 

Ma perché allora non prevedere un salto di livello, la zona rossa? «I dati reali li avevamo tutti i giorni, i massimi esperti che avevamo riunito quel giorno (tra loro anche il professore Massimo Galli, infettivologo dell’ospedale Sacco di Milano) sulla base dei dati in nostro possesso, dicono che vanno mantenute misure della settimana precedente. Stiamo parlando dei primi giorni della pandemia in occidente: se i nostri esperti ci avessero chiesto di adottare zona rossa, lo avremmo fatto. I dati erano in mano nostra e del governo. Ma nessuno ci ha detto di confinare alcunché». Le parole di Gallera, tuttavia, non possono essere confermate da nessun verbale scritto delle riunioni, perché non c’è traccia di alcun documento ufficiale.

Gallera scarica sugli esperti la responsabilità, specificando: «Non è corretto ragionare col senno di poi, oggi è diverso. L’esperienza ci dice che servivano le zone rosse. Se governo e Oms avessero fornito strumenti a gennaio per affrontare la pandemia avremmo lavorato meglio».

Su una questione Gallera è certo: degli scenari di Merler, il matematico della fondazione Bruno Kessler di Trento, in possesso del Comitato tecnico scientifico (Cts) e del governo, né lui né Fontana sapevano nulla. Erano proiezioni preoccupanti, da quanto risulta a Domani e alla procura di Bergamo, condivise con i vertici regionali.

In particolare sarebbe stato Alberto Zoli, a capo dell’Azienda regionale emergenza urgenza (Areu) e membro del Cts a riferirli dopo il 21 febbraio, quando la situazione era ormai fuori controllo. Zoli pur vincolato dal patto di riservatezza decise di comunicare tali scenari nei vari gruppi dell’unità di crisi istituita da regione Lombardia. Zoli avrebbe pure detto ai pm che sia Gallera sia Fontana erano stati informati.

«Zoli non ci informa di niente», ribatte duro Gallera, che promette querele se Zoli dovesse aver detto davvero queste cose ai pm di Bergamo: «Mai detto nulla in unità di crisi. Ne risponderà». 

L’inchiesta di Bergamo

I pm di Bergamo si apprestano a chiudere le indagini, alcune fonti confermano che potrebbero farlo entro la fine dell’anno. Una ventina di giorni per capire se la procura ha trovato conferme alle ipotesi iniziali di epidemia colposa. In questi mesi ha acquisito una mole notevole di documenti, ha sentito decine di testimoni eccellenti, del governo e della regione: da Conte, a Roberto Speranza (ex ministro della Sanità) a Fontana. Tra i teste ci sono pure gli esperti citati da Gallera. Come l’infettivologo Massimo Galli.

Contattato da Domani, Galli ha precisato: «Non ho fatto parte di nessuna commissione ufficiale in regione», tuttavia, conferma che il 28 febbraio è stato coinvolto in una riunione sfociata poi in un incontro pubblico: «Ho ritenuto fosse mio dovere andare a dire, quando me lo hanno chiesto, guardate che si prospettano lacrime e sangue. Poi però la coerenza tra quello che ho detto io il 28 e quello che è stato fatto è tutta quanta da mettere in discussione».

Anche Vittorio Demicheli, a capo della task force della regione Lombardia e direttore sanitario dall'Agenzia per la Tutela della Salute per l'Area Metropolitana milanese, è stato ascoltato dai magistrati bergamaschi: Demicheli, risulta a Domani, ha spiegato che in una prima fase i tecnici spingevano per creare le zone rosse. Contattato per avere una conferma di quanto riferito in procura, spiega: «Noi tecnici non abbiamo mai detto di non fare la zona rossa, e non eravamo noi che proponevamo, l’unità di crisi lombarda andava a traino delle decisioni del Cts e del governo». 

Poi ricorda un fatto: «Abbiamo spinto per le zone rosse in tutta la prima fase, finché abbiamo iniziato a vedere focolai a Cremona e Bergamo, e abbiamo capito che il confinamento singolo non funzionava più». Risponde infine a Gallera, quando dice che nessun esperto gli disse di istituire la zona rossa: «Forse l’ex assessore si riferisce al momento in cui noi abbiamo iniziato a sostenere che la zona rossa aveva ormai poco sensno, perché questo approccio di confinamento non bastava più, era necessario un salto di qualità intervenendo sulla popolazione in generale. E questo gli è stato detto in una riunione con il presidente, ma secondo eravamo già a marzo».

Che nessuno della regione il 28 febbraio fosse intenzionato a chiedere la zona rossa emerge anche da una chat letta da Domani. Il giorno prima, infatti, Massimo Giupponi, direttore generale dell’Agenzia tutela della salute (Ats) di Bergamo, aveva tranquillizzato i sindaci della Val Seriana: alle 16.17 scrive che «i titoli di stampa che riportano la possibile istituzione di una zona rossa nell’area di Alzano sono fuorvianti, in quanto vi confermo che ad oggi non è prevista alcuna istituzione di zona rossa sul territorio bergamasco. La frase dell’assessore Gallera è riferita al fatto che regione Lombardia sta monitorando tutte le aree più interessate dal Coronavirus». 

Alla luce della catastrofe, con migliaia di morti, forse il monitoraggio non ha funzionato. La consulenza in mano ai pm di Bergamo ha stabilito il numero di vite che si potevano salvare con un confinamento immediato delle aree della bergamasca: dalle 2mila alle 4mila. Al di là degli esiti giudiziari della vicenda, resta la responsabilità politica di certe decisioni non prese a fine febbraio a Milano e a inizio marzo a Roma, con l’allora premier Giuseppe Conte che suggeriva, come emerso dai documenti pubblicati da Domani, di usare la zone rossa con «parsimonia perché ha un costo sociale politico ed economico molto elevato». 

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