Cristiano Ronaldo è quel tipo di brand che con una sola parola fa perdere alla Coca-Cola circa 4 miliardi di dollari. Il fatto è noto: l’altro giorno il calciatore portoghese ha scansato dal tavolo della conferenza stampa le bottiglie dello sponsor di Euro 2020 e il titolo della Coca-Cola ha reagito come era prevedibile quando un’icona globale dello sport segnala che preferisce bere acqua, che almeno dai tempi di Zoolander sappiamo che è il segreto dell’idratazione.

Fin qui è l’episodio di una normalissima guerra fra marchi commerciali. L’azienda ha cercato di gestire la crisi dicendo che «ciascuno ha diritto di scegliere le bevande che preferisce» nel massimo rispetto dei «gusti e bisogni» individuali, sperando che fosse sufficiente. Ma sufficiente non è.

L’inghippo logico è che la Coca-Cola normalmente nelle sue comunicazioni non dice che è una questione di preferenze, che ognuno fa un po’ come gli pare nei consumi e nella vita, ma dà giudizi apodittici, stabilisce valori, prende posizioni perentorie su argomenti che non c’entrano nulla con la stretta competenza dei suoi affari. 

L’azienda non ha detto che i rappresentanti eletti fanno le leggi che vogliono quando la Georgia a marzo ha approvato una norma che, secondo i critici, comprime il diritto di voto.  Al contrario, l’azienda ha criticato duramente la legge, dicendo che farà di tutto per «sostenere norme federali che proteggono l’accesso al voto», scatenando un contenzioso con i repubblicani fatto di minacce di boicottaggi e controboicottaggi. 

Coca-Cola sbandiera giudizi inossidabili su inclusività, giustizia sociale, diritti umani, sostiene Black lives matter, condanna le discriminazioni, appoggia chi le combatte, prende posizione nel dibattito politico e fa tutto quello che ci si aspetta da una multinazionale che aderisce al “woke capitalism”. I suoi comunicati stampa sembrano stralci di un trattato di precettistica morale del Seicento scritti in aziendalese contemporaneo.

Tutto legittimo e commendevole, naturalmente, ma poi arriva il giorno in cui Cristiano Ronaldo va a vedere il bluff. Lui ha detto soltanto “agua”, ma l’ovvio sottotesto era: io che sono un simbolo di salute, atletismo, vita sana e culto del corpo non voglio associare la mia immagine a una bevanda che è l’opposto della salute.

Lui non lo ha detto, ma Coca-Cola non solo è corresponsabile dell’obesità infantile (e non solo infantile) in varie parti del mondo, ma ha anche finanziato eserciti di scienziati per produrre ricerche fuorvianti o truffaldine che scaricano la colpa sulla dieta e altri fattori.

Questo per tacere poi delle responsabilità ambientali legate alla plastica. Solo un esempio: nel 2009 l’azienda ha promesso che avrebbe raggiunto la quota del 25 per cento di plastica riciclata entro il 2015. Sei anni dopo la scadenza, la quota è al 10 per cento.

Se la Coca-Cola fosse un semplice attore del mercato guidato dalla massimizzazione del profitto avrebbe buon gioco a dire a Ronaldo e a tutti i consumatori che ognuno beve un po’ quello che vuole.

Poiché invece la Coca-Cola si compiace di essere un player morale che ha l’ambizione di distinguere il bene dal male – curandosi di stare dalla parte del bene, anzi dell’ottimo, suo noto nemico – il buon gioco lo ha il calciatore, che con un gesto minimo e finanziariamente potente ha sfidato, e battuto a mani basse, l’azienda nel campo in cui lei stessa si vanta di operare, quello dei giudizi, della rettitudine, della coerenza, dei valori, della bontà. 

Ed ecco che dopo averci servito per decenni la critica della ragion pratica con le bollicine, per l’azienda incastrata dal campione sulla coerenza fra prodotto e messaggio tutto magicamente si risolve in una mera questione di preferenze.

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