«Solo perché non hai vissuto qualcosa in prima persona, non significa che non esista». Più che un consiglio, un monito.

A lanciarlo è stata Sally Abé, chef-director del londinese The Pem, nella speranza che a raccoglierlo fosse il collega Jason Atherton. Non uno qualunque, ma uno chef che vanta una stella Michelin e sedici ristoranti aperti in giro per il mondo.

Lo stesso che, pochi giorni prima, aveva rilasciato un’intervista al Times in cui sosteneva di non vedere sessismo nelle cucine. O perlomeno non in modo più accentuato rispetto agli altri settori («C’è nel giornalismo, c’è nella moda», sottolineava) o nella società.

A suo dire, «ci si concentra troppo sugli aspetti negativi piuttosto che su quelli positivi» della ristorazione, «come il fatto che si può essere di qualsiasi sesso e affermarsi».

Un’altra verità

Non proprio. A svelargli un’altra verità, sicuramente più cruda e violenta, sono state Sally Abé, Poppy O’Toole, che dopo aver perso il lavoro durante la pandemia si è costruita la fama di cuoca su TikTok, e altre 70 tra chef e dipendenti del settore dell’hospitality.

Hanno deciso di muoversi tutte insieme, «scandalizzate» per le dichiarazioni di Atherton, a cui hanno risposto con una lettera: «Non possiamo più rimanere in silenzio. Il sessismo è stato e rimane un problema onnipresente nel nostro settore». Con conseguenze concrete, quali «sminuire il potenziale e i contributi di innumerevoli donne di talento».

Non a caso, solo due donne hanno ricevuto stelle Michelin negli ultimi quattro anni: «Questo non è affatto rappresentativo del talento femminile nel settore». I premi e i riconoscimenti sono ciò che accade in superficie, pubblico a tutti.

Ad avvalorare la reprimenda delle chef è soprattutto quello che si consuma nel sottobosco, dietro le porte che dividono le cucine dalle sale, o con le serrande abbassate, lontano dagli occhi dei clienti.

Oppure sono loro stessi, con commenti e giudizi non richiesti, a contribuire a un fenomeno che, come sostiene Atherton, dilaga ovunque ma, contrariamente al suo pensiero, trova nella ristorazione terreno fertile.

Un problema strutturale

La ragione sta nel modo in cui è strutturato il comparto, che riflette una logica maschilista. Negli Stati Uniti ad esempio più di 7 camerieri su 10 sono donne, spesso giovani in cerca di guadagno per ripagarsi le spese.

Le vittime perfette, fin troppo facili da ricattare. Non solo dai datori di lavoro uomini, che nella maggior parte dei casi ricoprono un incarico dirigenziale e quindi meglio retribuito.

Ma anche dai clienti. Da un sondaggio della Hart Research Associated condotto su oltre 1.200 donne che lavorano nei fast-food è emerso che il 40 per cento di loro ha subito un qualche tipo di molestia durante l’orario di servizio: battutine ammiccanti (27 per cento) nonché, permettetecelo, squallide del calibro «Il cibo è buono quanto te» o «Sei tra i dessert? Perché hai un aspetto delizioso»; abbracci o dimostrazioni di affetto indesiderati (26 per cento); domande sui propri interessi sessuali (20 per cento); baci o palpeggiamenti non richiesti (10 per cento); richieste di sesso, anche in cambio di benefit aziendali (8 per cento); violenza sessuale (2 per cento).

il caso McDonals’s

Un caso eloquente riguarda McDonald’s Uk. Da un’indagine della Bbc di due anni fa erano emerse storie inquietanti, che vedevano giovani dipendenti subire molestie quasi ogni giorno.

Su oltre 100 testimonianze, 78 parlavano di molestie sessuali mentre 31 di aggressioni. Di diversa natura, ma comunque gravi, le 18 denunce per razzismo e 6 per omofobia.

Dall’azienda erano arrivate garanzie sul fatto che avrebbe fatto luce su questi episodi e risolto i problemi interni.

Ma appare lontana dall’obiettivo. Ancora oggi l’emittente britannica segnala abusi sui dipendenti, come sesso in cambio di turni extra. In 700 hanno fatto causa a McDonald’s per non averli protetti, scambiando le molestie per un gioco tra colleghi.

«Se avessi una sorella o una figlia non vorrei che ci lavorassero», è l’ammissione un ex dipendente di vent’anni.

Se di fronte alle avance dei proprietari dei locali si instaura un ricatto economico, con i clienti è diverso.

È un concetto ormai quasi inscalfibile quello secondo cui chi paga ha sempre ragione. Bisogna sempre presentarsi in servizio con il sorriso stampato sulla faccia, appagando l’ospite in tutto e per tutto.

Così, anche chi riceve una molestia tende a tacere.

Specie negli Stati Uniti, dove le mance hanno un peso non indifferente sullo stipendio di fine mese. Nei ristoranti d’America il sessismo sembra un rituale consolidato.

È qui che si concentra il maggior numero di denunce, più che nel mondo del cinema o in quello accademico. In un rapporto della Harvard Business Review di qualche anno fa è stato rilevato che il 90 per cento dei dipendenti ha subito una molestia.

Anche uomini, come i dipendenti che hanno accusato la celebre chef di Boston, Barbara Lynch, che, a causa dei suoi problemi con l’alcolismo spesso finiva per toccarli nelle parti intime, mettendoli a disagio.

Corpi straziati

Anche nella ristorazione australiana sembra essere un problema enorme legato al sessismo. “Not so hospitable” è un’associazione nata di recente per raccogliere e portare alla luce episodi di molestie che avvengono all’interno della catena Adelaide.

L’anno scorso, in collaborazione con il Melbourne Centre for Cities, ha pubblicato un report in cui offriva i numeri – tra gli intervistati, il 57 per cento ha subito una molestia e il 41 per cento un’aggressione – e le cause del fenomeno.

A ricoprire incarichi dirigenziali sono per lo più uomini, che spingono altri uomini a fare carriera, magari coprendo o favorendo le loro azioni invece che denunciarle.

Nel documento il settore dell’ospitalità è stato descritto come un «club di uomini» dove «i ragazzi si comportano da ragazzi».

Ne sa qualcosa Jeanie Walker, che quando era una giovane chef da Adelaide subiva palpeggiamenti e battute a sfondo sessuale su base quotidiana.

«Quasi ogni conversazione riguardava il sesso o commenti sul fatto che ho un seno grande o che sono una donna. Cose davvero incredibili, se ci ripenso».

A proposito di uomini che ricoprono posizioni di rilievo.

In seguito all’inchiesta del Sydney Morning Herald, in cui denunciava le molestie che si consumavano ai danni dei dipendenti della catena Swillhouse che gestisce diversi bar e ristoranti, l’allora amministratore delegato Anton Forte aveva rassegnato le dimissioni.

Una scelta personale, maturata senza nessuna accusa pendente nei suoi confronti.

Ma i racconti pubblicati sul quotidiano erano troppo pesanti per far finta di niente, nonostante Forte abbia cercato adottato politiche interne per arginare il problema.

Tra le storie, anche quella di una barista che aveva raccontato di essere stata violentata nel bagno del locale dopo essere svenuta per aver bevuto troppo.

Niente che si possa cancellare. «Le persone che fanno soldi lo fanno grazie ai nostri corpi straziati», ha dichiarato un suo collega. «Questo settore a cui ho dato tanto mi ha completamente fottuto».

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