Continua con la sua ottava puntata la rubrica “Politica resiliente” curata da Avviso Pubblico, l’associazione nata nel 1996 per riunire gli amministratori pubblici che si impegnano a promuovere la cultura della legalità democratica.


Scalare la classifica per evitare i play out e segnare il goal decisivo per consolidare una posizione guadagnata con grande fatica, a suon di calci nel sedere al clan Gambacurta di Roma. È la sfida del Montespaccato Savoia, la squadra di calcio un tempo ostaggio della mala romana e oggi al centro di un’incredibile impresa sportiva iniziata con l’arresto dei fratelli Gambacurta, i re di Roma nord, boss alle borgate Montespaccato e Primavalle nell’ambito dell’operazione “Hampa” di giugno 2018. Tra i beni confiscati al clan ci sono 21 immobili, 7 aziende, 2 quote societarie, 49 veicoli, 5 conti correnti e beni di lusso, per un valore complessivo stimato intorno a 6 milioni di euro. All’interno della lista anche la Polisportiva Dilettantistica Montespaccato, che i magistrati hanno assegnato all’Ipab regionale “Asilo Savoia” attraverso un accordo con la regione Lazio. Questa soluzione ha permesso al centro sportivo di rialzare la testa, portando persino la prima squadra nel campionato di Serie D.

«In un anno e mezzo di lavoro il centro è riuscito a coinvolgere circa 500 ragazzi e le squadre di calcio giocano in tutti i campionati giovanili. Dopo il sequestro c'era il rischio di chiusura, ma per fortuna non è stato così e attorno alla squadra ora si sta ricostruendo una comunità». Gianpiero Cioffredi è il presidente dell’Osservatorio Legalità della Regione Lazio e ha seguito in prima linea il percorso di assegnazione e riutilizzo del centro sportivo intitolato nel 2019 a don Pino Puglisi, il prete antimafia ucciso da Cosa nostra nel quartiere Brancaccio di Palermo il 15 settembre 1993. «Ma non c’è solo il calcio, i giocatori del Montespaccato firmano un Patto di Responsabilità che li impegna a percorsi di autonomia personale e professionale. Il progetto si chiama “Talento&Tenacia”: devono studiare e lavorare, noi li accompagniamo anche nel loro percorso formativo e professionale, oltre che nelle attività di responsabilità sociale, come il volontariato».

Il riutilizzo sociale

Il progetto di Montespaccato è solo uno dei tanti esempi che trapuntano la penisola del “buon fare” e che ha radici ben piantate nella legge 109 del 1996 sul riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie, la prima legge antimafia non emergenziale. Nata all’indomani della stagione delle stragi mafiose e presentata in parlamento da Giuseppe di Lello Finuoli, ex componente del pool antimafia di Falcone e Borsellino, la legge 109/2016 è stata promossa e sostenuta dall’associazione Libera che riuscì a raccogliere e depositare in parlamento un milione di firme. La legge introduceva l’uso a fini sociali dei beni tolti alle organizzazioni criminali e ha segnato un passo avanti fondamentale dopo l'approvazione della cosiddetta legge La Torre-Rognoni del 1982 (L.646 del 1982), che con l'articolo 416 bis – associazione a delinquere di stampo mafioso – faceva scattare automaticamente anche il sequestro dei beni dei condannati.

Da allora sono oltre «36mila i beni immobili (particelle catastali) confiscati, il 48 per cento dei quali sono stati destinati dall’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (Anbsc) per le finalità istituzionali e sociali, ma ben 5 beni su 10 rimangono ancora da destinare», scrive Libera nel suo rapporto Fattiperbene, nel quale elabora i dati dell’Anbsc. «Il maggior numero di beni immobili confiscati è in Sicilia (6906), segue Calabria (2908), Campania (2747), Puglia (1535) e Lombardia (1242) – dati riportati ancora dell’Associazione di don Luigi Ciotti – a questi si sommano 4384 aziende confiscate, di cui il 34 per cento è stata già destinata alla vendita o alla liquidazione, all’affitto o alla gestione da parte di cooperative di lavoratori delle stesse». Il censimento di Libera conta «867 soggetti diversi del terzo settore impegnati nella gestione di beni immobili confiscati alla criminalità organizzata, ottenuti in concessione dagli enti locali, in ben 17 regioni su 20».

Beni comuni

Da beni confiscati a beni comuni. Un bilancio che conta decine di migliaia di esempi che da nord a sud rappresentano opportunità di impegno e responsabilità per istituzioni, associazioni, cooperative di lavoratori nell’ottica del bene comune. «Cosa più brutta del sequestro dei beni non c’è (…) quindi la cosa migliore è quella di andarsene», diceva il boss siculo-americano Francesco Inzerillo intercettato nel febbraio 2008 nell'ambito dell'operazione “Old Bridge”. È uno strumento che fa male alle mafie, nato dall’intuizione di Pio La Torre, sindacalista ed esponente del Pci che pagò con la vita il suo impegno contro Cosa Nostra e rafforzato dalla legge 109 del 1996 sull'uso sociale dei beni sottratti al patrimonio sporco delle cosche. Ma quasi sempre la strada è in salita. Dal sequestro alla confisca definitiva a volte passano anni e questo rende spesso svantaggiosi gli investimenti a lungo termine. Questa è la ragione per cui spesso i progetti non decollano né hanno vita lunga.

Bed&breakfast inclusivi

Ne sa qualcosa Michele Abbaticchio, sindaco a Bitonto (Bari), che ha vinto la sua sfida. Dopo quasi un decennio è finalmente arrivato a pubblicare il bando pubblico per la ristrutturazione di due appartamenti sottratti ai clan Parisi e Capriati che controllano la zona. Lì nascerà un bed&breakfast per disabili, gestito da persone con disabilità. In particolare quello di via Muciaccia è noto alle cronache per le resistenze dei condomini quando nel 2017 alcuni attivisti di Libera appesero al balcone uno striscione che recitava «Ieri mafia, oggi Libera, domani liberi». In quell’appartamento viveva il boss della zona Emanuele Sicolo, in carcere per associazione mafiosa, omicidio, rapina e traffico di droga. I condomini erano preoccupati di una rappresaglia e chiesero la rimozione del lenzuolo. Ma niente da fare, il sindaco Abbaticchio – che è anche vicepresidente di Avviso Pubblico, la rete dei comuni e delle Regioni contro le mafie – appese un secondo striscione anche sul palazzo del Comune.

«Bisogna infiltrare la presenza del comune, là dove c'era quella della mafia», commenta Abbaticchio. Perciò due anni fa il bando è stato vinto dall’associazione Anatroccolo, gestita da famiglie che hanno in comune la presenza di componenti portatori di handicap. «Contemporaneamente siamo partiti con la ricerca dei fondi per la ristrutturazione degli immobili e ora il progetto può diventare realtà – spiega il sindaco –. Siamo riusciti a portarci a casa circa 600mila euro di fondi comunitari con i quali nascerà un B&B sociale con annesso centro di supporto per famiglie fragili». Il progetto prevede anche l’impiego di lavoratori vulnerabili – con disabilità e giovani a rischio devianza – oltre ad essere finalizzato alla promozione di ricettività sociale per persone con esigenze speciali. «Dove prima c'era la persona forte che andava contro le regole – conclude Michele Abbaticchio – oggi ci sono delle persone altrettanto forti con diverse abilità e che si riscattano in un percorso di legalità e integrazione sociale».

Protagonista della lotta alle mafie è dunque la società civile che si riappropria di spazi, creandone di nuovi. E in questo l’impegno delle donne può fare la differenza. Settecento chilometri più a nord, a Maranello (Modena), si sta concretizzando “Orme di legalità: sui passi delle donne coraggiose”. Un progetto di ricezione turistica, co-finanziato dalla regione Emilia-Romagna, per l’inserimento lavorativo di donne vittime di violenza e non solo. La villa di lusso dove nascerà il Room&Breakfast apparteneva ai fratelli Pelaggi, imprenditori della zona legati alla cosca di ‘ndrangheta Arena di Isola Capo Rizzuto. «Per anni i Pelaggi hanno sponsorizzato eventi promossi dal Comune – spiega Mariaelena Mililli, vicesindaco di Maranello – sembravano imprenditori onesti e invece la loro società era una scatola vuota al servizio della ndrangheta».

L’idea di trasformare la villa di mafia in una struttura ricettiva di alto livello nasce quasi sette anni fa nell’ambito delle politiche di pari opportunità che ha portato anche alla costruzione di un centro antiviolenza. Il progetto ora gode anche del sostegno dell’istituto alberghiero di Serramazzoni – struttura rinomata che forma le eccellenze della ricettività e della ristorazione – e di alcuni albergatori della zona che mettono a disposizione delle donne in formazione le proprie strutture. «Sul territorio c’era un vuoto nelle politiche sociali che abbiamo sempre sostenuto – conclude il Vicesindaco, che è anche coordinatrice regionale per l’Emilia Romagna di Avviso Pubblico – Perciò accanto al nostro fortissimo impianto di servizi per donne con minori, donne fragili, mancava proprio tutta la parte sommersa, che sono le vittime di violenza. E così nasce 'Orme di legalità': se hai un problema vieni assistita fino al punto in cui devi deciderti a renderti autonoma e trovare il tuo progetto di vita».

© Riproduzione riservata