Un recente studio sociologico ha analizzato i rischi vissuti dai giovani Lgbtqia+ negli incontri online e offline: molestie, aggressioni, discriminazioni o violenze. Di fronte alle potenziali situazioni di pericolo, vengono attuate strategie di protezione di diverso tipo. «Gli intervistati sono consci delle dinamiche politiche che inaspriscono la situazione per la comunità», spiegano gli autori
Le app di dating sono uno spazio di socializzazione alternativo che continua a essere esplorato, ma non esente da pericoli. Oltre a una sorta di stanchezza, la dating fatigue, alimentata da un’insoddisfazione per gli incontri online (e poi offline), le testimonianze e gli studi condotti negli anni dimostrano che soprattutto le donne e le persone Lgbtqia+ affrontano situazioni di molestie sia online che di persona: aggressioni, discriminazioni o violenze vere e proprie.
Due sociologi dell’università di Padova, la dottoranda Rachele Reschiglian e il professore Cosimo Marco Scarcelli, in collaborazione con l’università di Melbourne, hanno recentemente indagato l’esperienza dei giovani queer in Italia che usano le app di dating, soffermandosi sulla dimensione della violenza.
SUBCULTURE E RISCHI
Lo studio “To be Queer, to be in Dating Apps, to be Queer in Dating Apps” prende il via da otto focus group realizzati in diverse città. Per i giovani utenti Lgbtqia+ le dating app sono un’opportunità di connessione con gli altri ed esplorazione identitaria, specialmente in contesti territoriali più limitati, periferie o piccoli centri. Dalle loro storie emergono paure condivise, come quella del catfishing, l’essere ingannati da qualcuno con falsa identità, e forme di molestie come ricevere foto esplicite non richieste.
Ma ci sono delle forme di discriminazione, paure e situazioni vissute solo da alcune soggettività: ad esempio, persone transgender e bisessuali rivelano di sentirsi insicure anche su app specifiche per la comunità Lgbtqia+, come Her o Grindr – che dovrebbero risultare più sicure e inclusive – perché sono state vittime di feticizzazione da parte di altri utenti. «Questo dimostra come anche nella cultura queer esistano delle gerarchie, forme di subcultura e riconoscimenti, al pari di ogni grande gruppo sociale, quale è anche la comunità Lgbtqia+. E ci sono soggettività più esposte alla violenza», spiega Scarcelli.
Secondo Sara Cusato, psicoterapeuta e sessuologa Lgbtqia+ ally (alleata), ciò accade perché «la “comunità” è fatta da persone che possono cadere in bias e comportamenti non ideali. Una ragione è l’interiorizzazione dello stigma, la “omo-lesbo-bi-transfobia interiorizzata”: crescendo in società eteronormative, molte persone assorbono inconsciamente messaggi negativi o stigmatizzanti sul non essere etero o cis, che possono essere proiettati su altre persone, portando a giudizi, derisioni o esclusioni».
Cusato pensa inoltre che esistano «dinamiche di visibilità e invisibilità: alcune identità, come quelle gay o lesbiche, sono più riconosciute e rappresentate, mentre altre – bisessuali, trans, non-binary, asessuali, intersex – tendono a essere marginalizzate o cancellate, anche in spazi che si dichiarano inclusivi». Perché, aggiunge, «vanno considerate anche l’intersezionalità e i privilegi personali che ogni persona può avere a prescindere dall’identità sessuale».
Le persone transgender e non binary raccontano che, quando vengono percepite come donne, subiscono più comportamenti violenti da parte degli uomini. «Nell’equilibrio rischi, violenza, sicurezza c’è in gioco anche la percezione sociale degli altri su di loro», spiega Reschiglian: «Se una persona non binary è fisicamente percepita come una donna, allora potrebbe subire gli stessi trattamenti negativi che subisce una donna, molestie fisiche o verbali».
Proteggersi
Di fronte a potenziali situazioni di pericolo, gli utenti attuano strategie di protezione di diversa misura: utilizzano solo dating app in cui i profili sono verificati e sfruttano dei filtri specifici (genere, orientamento, età, ecc.), oppure strategie “multi-app”, facendo ricerche e verifiche su altre piattaforme o canali social. Durante gli appuntamenti di persona, molti scelgono contesti pubblici, evitando situazioni di isolamento, o condividono la propria posizione con amici.
Non tutte le persone percepiscono i rischi allo stesso modo. La loro esperienza è influenzata da fattori diversi. Uno di questi è il percorso identitario del singolo e la rete sociale di riferimento. Chi vive in modo più libero e sicuro la propria identità o il proprio orientamento sessuale si dimostra più sicuro anche nelle azioni che compie e più rilassato rispetto a potenziali rischi; al contrario, chi è in una fase di incertezza ed esplorazione, ha una percezione dei rischi più chiara e mette in atto più atteggiamenti di difesa, come proteggere i dati personali o utilizzare solo app generiche, per paura di essere smascherato.
A influire sono anche le altre esperienze di violenza che le persone hanno vissuto in prima persona in passato, o quelle sentite. Un altro fattore ancora è l’attuale contesto socio-culturale italiano: «Le persone intervistate sono ben consce delle dinamiche politiche che stanno inasprendo la situazione per la comunità Lgbtqia+», raccontano Scarcelli e Reschiglian.
Come sottolineano gli studiosi alla fine, nessuna strategia di protezione può eliminare completamente i potenziali pericoli. L’essere vittima di una situazione discriminante o violenta genera insicurezza, vergogna, calo dell’autostima e può sfociare in «un ritiro sociale conseguente alla perdita di fiducia nelle relazioni», spiega Cusato. E conclude: «Nel momento in cui poi andiamo a guardare nello specifico la popolazione marginalizzata dobbiamo anche pensare al carico quotidiano di microaggressioni, connesso al cosiddetto “minority stress”».
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