Il giorno è il 3 aprile 2023, il carcere è quello di Reggio Emilia. La scena racconta un pestaggio ai danni di un giovane tunisino ristretto nell’istituto di pena emiliano. Sembra di rivedere le immagini di Santa Maria Capua Vetere quando, anche allora in aprile (il giorno 6 del 2020), i detenuti erano stati picchiati per oltre quattro ore. In questo caso la vittima è una, l’aggressione sarebbe avvenuta coprendogli la testa con uno straccio prima di buttarlo a terra, picchiarlo e lasciarlo senza vestiti ormai strappati.

Fatti per i quali la procura guidata da Calogero Gaetano Paci ha chiesto e ottenuto per cinque agenti l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, per otto la sospensione dal servizio. In totale gli indagati sono quattordici.

Tra le contestazioni non c’è solo la tortura, il reato che il governo Meloni vorrebbe depotenziare, ma anche il falso. Come già accaduto in passato, ogni abuso di potere prevede sempre la falsificazione degli atti per coprire il pestaggio.

Il sette aprile, il detenuto ha presentato la denuncia che ha riassunto i fatti. Dopo il tremendo pestaggio, la vittima ha inutilmente chiesto di essere portato in infermeria, ma è stato messo in isolamento e per essere curato ha dovuto tagliarsi le vene con la ceramica dei sanitari.

Solo a quel punto è stato portato dai medici. La vittima è stata medicata, ma non è stata sottoposta a una visita complessiva e così non sono stati documentati i traumi riportati a causa del pestaggio. Dopo la medicazione è stata rimandato in isolamento.

Il pestaggio

L’aggressione è avvenuta dopo un colloquio molto animato con la direttrice, destinataria di diversi insulti da parte delle vittima che contestava alcuni rapporti disciplinari, ma anche l’isolamento dove era stato confinato.

«Comprendeva di essere stato abbrancato dalle guardie penitenziarie che iniziavano a insultarlo chiamandolo “marocchino di merda figlio di puttana” (…) gli avevano messo un sacchetto in testa e gli bloccavano le mani dietro la schiena, facendolo poi cadere a terra; successivamente lo colpivano con dei pugni in testa e sul volto attraverso il tessuto del sacchetto», si legge nell'ordinanza, firmata dal giudice Luca Ramponi, che riassume la denuncia della vittima.

L’indagine è partita da una verifica scrupolosa del racconto del detenuto visto che K.L. aveva più volte manifestato opposizione nei confronti del personale che aveva anche offeso. Una verifica che ha trovato un valido supporto nelle registrazioni dei filmati di video sorveglianza.

La vittima è stata incappucciata con una federa bianca, bloccato con le braccia dietro la schiena, non ha minacciato né lanciato lamette o sputato a qualcuno, è stato colpito con un pugno, sgambettato, preso a schiaffi, e ha ricevuto un altro colpo in testa mentre era inginocchiato. Ma non è finita.

Un ispettore ha chiesto a un sottoposto di mettere un scarpa sulla gamba della vittima, poi in testa. Quindi altri pugni. Una scena che si è conclusa con i vestiti strappati.

Gli attimi finali dell’umiliazione con il detenuto trasformato in prigioniero e oggetto di angherie e soprusi. Il tutto mentre era a terra, impossibilitato a muoversi. Una violenza vile da parte degli uomini della polizia penitenziaria.

Le indagini

Le indagini sono state condotte dal Nic, il nucleo d’investigazione regionale della polizia penitenziaria, e il giudice scrive che «appare difficile ipotizzare mutamenti della situazione processuale o in ogni modo acquisizione di emergenze in grado di offrire interpretazioni alternative ai fatti». Il riconoscimento dei carnefici è evidente dalla nitidezza delle immagini e dalla credibilità dei colleghi che li hanno riconosciuti.

Il giudice si è occupato di offrire una scrupolosa disamina nella valutazione del reato di tortura per concludere che nelle violenze subite dal detenuto è indubbiamente la contestazione più adeguata perché il modo con cui la vittima è stata percossa e malmenata «ha indubbiamente comportato una degradazione disumanizzante della sua persona».

Ad alcuni indagati viene contestato anche il reato di falso perché le relazioni che sono state elaborate in merito ai fatti accaduti quel giorno sono palesemente contraddette e smentite dalla visione dei filmati delle telecamere.

A partire dall’uso improprio di una lametta da parte del detenuto che avrebbe brandito minacciando gli agenti, una circostanza che è stata totalmente esclusa dal giudice dopo la visione delle immagini, ma che serviva come giustificazione per l’accaduto.

Cosa rispondono gli agenti? Si sono avvalsi della facoltà di non rispondere nei primi interrogatori di garanzia davanti al giudice mentre le difese respingono ogni contestazione.

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