Il narcotrafficante Fabrizio Fabietti non si fidava più di nessuno. Era terrorizzato a tal punto da convincersi che gli uomini con la divisa della guardia di finanza andati a casa sua per arrestarlo in realtà fossero i killer mascherati da agenti. Era novembre 2019 e quel giorno Fabietti tenta la fuga sui tetti per non farsi prendere. Si nasconde dietro i motori dei condizionatori e aspetta solo di essere giustiziato. Per sua fortuna si sbagliava, erano soltanto finanzieri che lo cercavano per mettergli le manette. Di recente è stato peraltro condannato a 30 anni in primo grado. Perché temeva di essere ammazzato?

Aveva paura perché pochi mesi prima avevano ucciso il suo amico e socio d’affari Fabrizio Piscitelli, il capo ultras della Lazio , narcos di Roma Nord noto con il soprannome di “Diabolik”. E «quando il crimine organizzato ammazza qualcuno negli ambienti sanno tutti chi è stato a premere il grilletto», è l’analisi di chi quei mondi li ha frequentati. 

Un colpo in testa

Dunque Fabietti temeva di fare la stessa fine dell’amico di sempre, Piscitelli, ucciso con un colpo alla testa il 7 agosto 2019 nel parco degli acquedotti a Roma, zona dove comanda tutto un uomo solo e il suo clan: Michele Senese detto “o Pazzo”. Si è detto molto dell’omicidio di Piscitelli, del suo killer, di ipotetici mandanti ancora ignoti alla giustizia. Manca ancora però da capire che ruolo abbiano avuto le due mafie più potenti oggi nella capitale. Ora Domani è in grado di ricostruire la convergenza di interessi del cartello criminale camorra e ‘ndrangheta, che ha benedetto la ‘fine’ di Piscitelli. A partire da informative e intercettazioni finora inedite che rivelano i passi falsi e gli sgarri fatti dal capo ultras a un padrino della ‘ndrangheta laziale, legatissimo alla camorra di Senese e ad altre cosche di stanza a Roma connesse a loro volta a uno dei killer arrestati per l’omicidio. 

“Diabolik” Piscitelli non si curava di tenere un basso profilo. La grammatica criminale e il rispetto per i capi mafia non erano il suo forte: «Rompe le scatole (…) sono pronto fammi vedere i coglioni che hai (…) sta a rompe er cazzo», è la frase intercettata dai carabinieri e pronunciata da Bruno Gallace, mammasantissima della mafia calabrese che si è presa la provincia di Roma. 

Colpisce la coincidenza temporale tra la sfuriata del boss della ‘ndrangheta e l’esecuzione del capo ultrà nel parco. Gallace, infatti, affronta la questione poche settimane prima dell’omicidio di Piscitelli. La ‘ndrina Gallace è in ottimi rapporti con Michele Senese e con il figlio Vincenzo, libero fino al 2020.

Queste intercettazioni di Gallace sono agli atti dell’ultima inchiesta sul clan attivo a Nettuno, il primo comune del Lazio sciolto per mafia nel 2005 e dopo 17 anni ancora dominato dalla stessa famiglia. La sfuriata del boss aveva colpito anche gli investigatori, convinti che potesse persino essere una pista da seguire per arrivare ai mandanti. Pista, per il momento, abbandonata. Di certo le accuse di Gallace a Piscitelli restituiscono una convergenza di interessi tra chi non tollerava più una testa calda come il capo ultrà.

Il motivo di tanta irritazione del boss calabrese è da ricondurre al favore chiesto dall’imprenditore Alessandro Marrone, che ha Piscitelli come «socio occulto»: Marrone aveva bisogno di protezione e si era rivolto a Gallace, che era intervenuto risolvendo la questione. L’imprenditore, tuttavia, a distanza di poco tempo, si presenta ad Anzio proprio in compagnia di Fabrizio Piscitelli in cerca di affari.

Una atteggiamento che manda su tutte le furie Gallace, quello è il suo regno. «Mannaggia la putt... ti vengono a bussare a casa tua... anzi sai che c’è che ti vengo a cercare io proprio a casa tua, mannaggia la colonna bastarda». E ancora: «Ti senti sto cazzo mi intruppi e se famo male (…)». Per concludere con queste parole: «Tu guarda se non glielo faccio schioppare davvero a quello guarda se non sono costretto a farglielo zompare». Il boss, quindi, è talmente contrariato da quella visita da ipotizzare un’azione violenta. Gli investigatori scrivono: «Gallace racconta di aver discusso con Marrone la sera precedente e di averlo nuovamente redarguito perché, dopo che il boss aveva risolto la questione, Marrone aveva riportato il personaggio (Piscitelli) ad Anzio, a casa del padrino». Marrone portando Piscitelli «aveva rischiato di rompere gli equilibri criminali ad Anzio», scrivono negli atti investigatori e inquirenti: «Co questi vai a fa le cose ma poi porti la gente a fa le prepotenze ad Anzio?», è la tesi del boss che riferisce all’imprenditore amico di Diabolik. Oltretutto il sospetto di alcuni uomini vicini a Gallace è che Piscitelli volesse fare la cresta su un affare dell’imprenditore. 

Lo scontro tra il padrino della ‘ndrangheta e Piscitelli risale alla metà di luglio 2019, tra il 16 e il 18 luglio: due settimane dopo il corpo Piscitelli verrà ritrovato senza vita a Roma nel parco degli acquedotti, nel territorio di Michele Senese, a capo di un gruppo criminale in sintonia con la ‘ndrangheta di Anzio e Nettuno, ossia con i Gallace. I fili si incrociano, gli interessi convergono, i mandanti restano ancora ignoti. Ma di certo Diabolik non era più gradito a nessuno. E la gita ad Anzio era solo l’ultimo dei passi falsi: certamente grave nel mondo del crimine, perché invadere un altro territorio senza autorizzazione può scatenare reazioni durissime. 

La partita di droga

Bisogna rimettere in ordine i fatti per capire chi muove i fili che conducono il killer sul luogo del delitto. Fili che portano sempre allo stesso punto, alla grande alleanza criminale tra camorra e ‘ndrangheta. Per ora c’è un presunto colpevole per l’omicidio Piscitelli: si chiama Esteban Raul Calderon. È stato arrestato per omicidio con l’aggravante del metodo mafioso.

Calderon, secondo gli inquirenti, è collegato ai fratelli Enrico e Leandro Bennato. Proprio Domani, lo scorso anno, prima del fermo di Calderon aveva citato i Bennato tra i nemici giurati di Piscitelli mentre giravano strambe ricostruzioni che portavano a una pista albanese, rivelatasi priva di riscontri. Perché gli albanesi in questa storia sono gli alleati perdenti dell’ex ultrà della Lazio. E dall’altro lato, però, sono alleati nel nord Europa della ‘ndrangheta e della camorra. Non solo, Leandro Bennato oltreché in rapporti con Vincenzo Senese ha stretto solide relazioni con uomini legati alla ‘ndrangheta romana: Bennato, infatti, è in contatto con Costantino Sgambati, narcotrafficante, in ottimi rapporti proprio con i Senese e definito referente romano della ‘ndrina Bellocco. I Bellocco operano a Roma grazie agli accordi il boss Gallace, lo stesso che voleva vendicarsi contro Piscitelli. Ancora una volta le due mafie sullo sfondo di un omicidio ancora senza mandanti.

La faida

Calderon e i fratelli Bennato fanno parte di una banda in conflitto con quella di Piscitelli e i suoi soci albanesi. I primi muoiono, i secondi vincono e scampano agli agguati, con la benedizione silenziosa dell’alleanza criminale che governa la capitale. Nel novembre 2019, Leandro Bennato è vittima di agguato, ma sopravvive. La sequenza è impressionante: poche settimane dopo provano a uccidere Fabietti, l’amico trafficante di Diabolik. Il 20 settembre 2020, al chioschetto ‘Bora bora’ sul lungomare di Torvajanica uccidono con due colpi di pistola al collo l’albanese Shehay. Per quest’ultimo omicidio vengono arrestati Calderon (ritenuto anche il killer di Diabolik), ed Enrico Bennato come esecutori dell’agguato, un altro uomo, invece, non è ancora stato identificato. 

Calderon è vicino anche ad un altro personaggio della malavita romana: si tratta di Giuseppe Molisso, che con Calderon è indagato per un altro agguato, il tentato omicidio dei fratelli Costantino.

Tra Senese e ‘ndrangheta

Molisso, Enrico e Leandro Bennato hanno un riferimento in comune: Michele Senese, re del crimine a Roma. Per anni è entrato e uscito di galera fingendosi pazzo, con la compiacenza di medici e professionisti, dicendo di parlare tedesco e di avere disturbi mentali. Era lucidissimo, la barzelletta dura per decenni e finisce nel 2013 quando viene arrestato per un omicidio e condannato a 30 anni. Nel 2017 gli è stato revocato il carcere duro e nel 2018, a giugno, ha avuto un permesso premio prima di finire nuovamente coinvolto nella retata del 2020. Fino a quel momento a gestire gli affari era rimasto il figlio Vincenzo che era libero nel periodo della faida tra il gruppo Bennato e Piscitelli con i sodali albanesi.

Senese può contare su una schiera di imprenditori e professionisti che lavorano in tutti i settori: da società finanziarie ad aziende che gestiscono autosaloni, da ristoranti ad alberghi. Anche “Diabolik” era cresciuto sotto l’ala protettiva di Senese, poi però le strade si sono separate. I Senese regnano ancora lì nel quartiere dove è finita la vita del capo ultrà della Lazio. E fanno affari alleati con la ‘ndrangheta. Di nuovo la santa alleanza mafiosa che si è presa Roma. 

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