Ci sono civiltà che muoiono per shock esterni, altre che crollano corrose dall’interno. La nostra affronta questa doppia minaccia: lo shock esterno, la pandemia, ha reso evidente una malattia a lungo rimossa, cioè la disuguaglianza. È forse la parola più abusata dopo resilienza, così ripetuta a vuoto da aver perso ogni significato.

In pandemia, però, la disuguaglianza ha tornato ad avere una misurazione percepibile: è la differenza tra chi può pagare un tampone a domicilio molecolare 150 euro ed evitare la quarantena e chi deve inseguire quelli forniti della sanità pubblica; è l’abisso che divide chi approfitta del nuovo tempo domestico per guardare film arretrati o frequentare qualche corso di specializzazione online e chi impazzisce tra spazi angusti, bambini sempre a casa da scuola e opportunità professionali che svaniscono. 

La disuguaglianza più netta è quella tra chi negli ultimi due anni ha continuato a lavorare, guadagnando soldi che non sapeva più come spendere, e chi ha perso ogni reddito: il tasso di risparmio degli italiani è passato dal 2,39 per cento del reddito disponibile nel 2019 al 10,81 nel 2020 (dati Ocse). Segno che durante la pandemia si è accumulata ricchezza privata mentre lo stato generava debito pubblico, passato dal 134,4 per cento del Pil nel 2019 al 160 per cento del 2021.

La politica monetaria delle banche centrali ha permesso all’Italia, e a molti altri paesi, di sommare enormi quantità di debito con una spesa per interessi che scendeva invece che aumentare. Ma non durerà per sempre.

Ora sta arrivando un’inflazione che sembra sempre meno provvisoria, e anche questa tassa occulta avrà impatti molto diseguali, nulli o quasi su chi potrà adeguare i propri ricavi a prezzi in crescita, pesanti sui redditi fissi. 

Questo contesto costringe ad affrontare domande che abbiamo ignorato nell’ultimo quarto di secolo, mentre l’Italia accettava un livello di disuguaglianze feudale senza neppure ottenere in cambio il dinamismo che certi liberisti considerano un beneficio sufficiente a compensare gli effetti negativi di ogni squilibrio. 

Per anni abbiamo lasciato che l’Italia diventasse un paese di rendite, dove il 10 per cento più ricco della popolazione possiede il 48 per cento della ricchezza delle famiglie e può trasmetterla quasi senza imposte di successione, in modo da perpetrare e aggravare la concentrazione di benessere. 

Tutti dicono di essere contro la disuguaglianza, ma solo finché non tocca i loro interessi: vogliamo redistribuire la ricchezza, con imposte regolari sul patrimonio, sulla casa o sull’eredità? Oppure vogliamo redistribuire opportunità, tra quote rosa, discriminazione positiva, assunzioni selettive di giovani e persone da zone disagiate? E dobbiamo preoccuparci solo di allineare i punti di partenza o anche quelli di arrivo, in termini di carriera e redditi?

Con lo speciale di oggi, curato dal nostro data editor Filippo Teoldi, Domani inizia un percorso lungo un anno per affrontare queste questioni decisive: sarà il nostro contributo per far in modo che il 2022 sia un po’ meglio del 2021.

Buon anno. 


Economisti, statistici, sociologi, filosofi, politologi e scienziati sociali di ogni disciplina che vogliono contribuire a questo dibattito possono inviarci contributi, abstract di ricerche, o altro a lettori@editorialedomani.it oppure a stefano.feltri@editorialedomani.it e filippo.teoldi@editorialedomani.it 

Tutto ciò che include anche i dati grezzi è particolarmente apprezzato. 

La nostra indagine non vuole essere ristretta al dibattito italiano, ma l’Italia sarà il centro dell’analisi.

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