A posteriori si potrà dirlo: quando è iniziata la fine? E quanto ripida è stata la discesa? Volendo giocare al Risiko del tennis, l’Italia – che per decenni ha ispirato il sarcasmo trasversale di sportivi e membri assortiti della società, culminato nelle «spallucce vittimiste dei tennisti italiani» di Nanni Moretti - si è fatta tanto protagonista da aver preso in carico non solo la progettazione del tennis del futuro ma pure l’estromissione dal gioco del più grande di tutti. Di Novak Djokovic.

A intestarsi il compito di un altro scossone virulento, nonostante quel gesto della mano, post match point, tutto nostro e il cui significato svaria dal «Ma che vuole da me?» di Totò al «Ma davvero io?» è Luca Nardi, pesarese, ragazzo dalle qualità arcinote solo alla conventicola di appassionati nostrani, quelli che si facevano le notti per seguirlo nelle sue vicissitudini al challenger di Pune o di Matsuyama.

Vent’anni, 123esimo nel ranking, ha stravolto l’ordine costituito (o destituito?) battendo il numero uno del mondo a Indian Wells, torneo reputato da giocatori e addetti come l’autentico Quinto Slam. Con i soli numeri il miracolo è difficilmente comprensibile, e comunque: quando Nardi stava per compiere cinque anni, il suo idolo Djokovic vinceva il primo titolo nel deserto della Coachella Valley; quando Nardi racconta che è cresciuto col poster di Nole in camera, non usa una iperbole.

Luca Nardi a 12 anni in una videointervista

Chi è Nardi

Il giovane italiano aveva già fatto il suo, nel torneo: iscritto alle qualificazioni, dopo una partita tosta contro l’ex top 10 David Goffin era rimasto lì, a mettere la firma per la lista dei lucky loser nella speranza di un qualche forfait. Che è arrivato, nella persona dell’argentino Etcheverry: da testa di serie, ha regalato a Nardi direttamente un secondo turno, passato brillantemente a spese di un atleta cinese particolarmente in forma, il triplozetato Zhang Zhizhen.

Servizio, dritto, “mano”, mobilità: Nardi ha le qualità del giocatore di classe, semmai sussistevano dubbi sulla capacità di rinforzare corpo e mente a sufficienza per reggere le sportellate dei grandi con continuità.

Per conto suo, Djokovic tornava in California dopo cinque anni di divieto d’accesso per la scelta di non vaccinarsi contro il covid; né il suo 2024 aveva regalato la solita dominanza australiana. Anzi, a Melbourne Jannik Sinner, l’altro italiano rivoluzionario, era riuscito, prima volta nella storia, a fermare il serbo in una semifinale disputata laggiù, dove Novak vantava un intimorente 10 a 0.

Come sta Djokovic

Una disfatta che in tanti hanno attribuito all’onda lunga del finale della scorsa stagione: la sconfitta nei gironi a Torino contro lo stesso Sinner, la Coppa Davis accarezzata con tre match point consecutivi e poi ceduta nelle mani dello stesso giocatore che mostrava al mondo di poter scardinare il suo muro di gomma infernale da fondocampo.

Djokovic si è presentato al secondo appuntamento stagionale con i graffi e le scorticature rimediate per mano di un campione italiano – e italiano era pure colui che l’aveva eliminato, in primavera, sui campi rossi di Monte Carlo, Lorenzo Musetti – senza avere in sé le risorse per apparecchiare una prestazione almeno discreta.

È stato vero l’opposto: un campo fiorito di errori banali col dritto, nessuna palla break conquistata nel primo e nel terzo set (per il più grande risponditore della storia, un dato francamente inaccettabile) e un atteggiamento più remissivo e contrariato che non, al solito, disposto a lasciare l’anima sul rettangolo prima di uscire dal campo. E così Luca Nardi è diventato il giocatore dalla classifica più bassa a cacciare fuori da un tabellone Slam o Master 1000 l’imperatore di 24 Slam e 40 tornei sub-Slam.

Nella rincorsa alla diagnosi, parallela ai festeggiamenti per un’altra impresa italiana nello sport della racchetta, due aspetti: l’età (Novak, superatleta, è comunque classe 1987 e la relatività del tempo non è ancora riuscita a sperimentarla in concreto, nonostante sia miglior candidato per farcela) e un frangente che il suo team maneggia quotidianamente: la motivazione. Il serbo è l’uomo del rilancio continuo, sì: ma ora che i record sono triturati, la concorrenza storica pressoché sopita, i primati intoccabili per chissà quante generazioni e che pure la prova del fuoco dei nuovi fenomeni – Sinner, Alcaraz, Rune – lo ha sì impegnato ma non travolto, resta davvero arduo immaginare cosa possa fargli gola.

Le prospettive

Il giovane Nole sgomitava per farsi strada tra Safin e Roddick, iniziava ad assaggiare il ferro di Federer e Nadal. È riuscito nella clamorosa follia di superare entrambi, ha gestito le ondate dei giocatori degli anni Novanta – Zverev, Tsitsipas, Thiem – e finora ha fermato o quanto meno ostacolato, con la racchetta di traverso, pure i ragazzi del nuovo millennio.

Adesso che gli tocca prodursi in sforzi che lui stesso ha definito sempre più duri, per restare sui livelli necessari a vincere ciò che ormai conta per lui, le botte degli ultimi mesi hanno procurato danni, nel motore e nella mente. Resta una generica corsa a ulteriori Slam e – per particolare affezione patriottica e per quel buco rimasto nel palmarés - ai Giochi Olimpici di Parigi 2024; a prestargli fede, pure quelli di Los Angeles 2028, al compimento dei suoi 41 anni.

Il post pubblicato dal sindaco di Pesaro Matteo Ricci su Facebook per celebrare Luca Nardi

Più che per un complesso italiano, tesi affascinante e che riempie di gioia tutti coloro che hanno sofferto in silenzio, dagli anni Settanta in poi, nella vana speranza di un’altra Squadra del ‘76 o pure di qualcosa di meglio, Djokovic può essere stato invogliato ad aprire la porta del suo crepuscolo da alcune sconfitte diverse per contesto e gravità. Che poi, effettivamente, siano giunte per mano azzurra, per noi un mano santa, per lui quella del diavolo, mettiamola via come una gioiosa coincidenza, un altro regalo dopo una vita di grigia irrilevanza.

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