Larry King, il leggendario anchorman che ha insegnato all’America «come parlare a chiunque, dovunque, in qualunque momento», dal titolo di uno dei suoi libri più famosi, è morto oggi, 23 gennaio, a Los Angeles. Il 2 gennaio era stato reso noto che dieci giorni prima King era stato ricoverato dopo essere stato trovato positivo al Covid-19. King aveva 87 anni e da decenni combatteva con gravi problemi cardiaci e non solo. 

Nel 1987 ha avuto un attacco cardiaco che lo ha costretto a un quadruplo bypass, nel 2017 è stato operato per un tumore ai polmoni e nel 2019 è stato in coma per diverse settimane in seguito a un infarto. Quando si è ripreso ha raccontato di aver contemplato l’idea del suicidio dopo quel terribile periodo.

Larry King con Jerry Lewis, nel 1999 (AP)

Definire King un’icona della radio e della televisione è quasi riduttivo. È stato la personificazione di un talento tutto americano per la conduzione televisiva, quella che viaggia sul crinale fra l’informazione e l’intrattenimento, mischiando i registri e le forme della comunicazione per creare quell’irriproducibile e irresistibile misura pop che ha portato i suoi programmi nei salotti di centinaia di milioni di americani, attraverso le generazioni.

Faceva interviste monumentali e programmi molto seri, King, ma senza mai prendersi troppo sul serio, e infatti si è accostato alla radio da bambino, affascinato dall’affabulazione, dalla capacità di diffondere idee e informazioni, ma anche calore e buonumore. Non è arrivato al mestiere del giornalista attratto dall’epica del “watchdog” del potere, su cui troppo spesso si sono fatti ricami retorici eccessivamente romantici, ma dall’arciamericana arte della diffusione popolare.

Il quartiere operaio di Brooklyn

King è nato a New York, in quello che oggi è il quartiere più problematico e violento di Brooklyn, Brownsville, ma che negli anni della sua giovinezza (è nato nel 1933) era popolato da ebrei della working class, molti dei quali osservanti, che poi hanno alimentato quel filone intellettuale di transfughi trozkisti infine approdati al mondo conservatore. Era il quartiere dove sono cresciuti il grande classicista Donald Kagan e Norman Podhortez, uno dei padri della corrente neoconservatrice, e che nel tempo si è trasformato, non senza attriti fra le comunità, in un quartiere prevalentemente afroamericano. Una generazione dopo quella di King, lì è cresciuto anche Mike Tyson, per dire.

In linea con il suo background, King era appassionato di baseball in modo maniacale, e nonostante il suo tardivo amore per i New York Yankees non ha mai del tutto sperato il trasferimento della leggendaria franchigia dei Dodgers da Brooklyn a Los Angeles, un antico trauma della classe popolare brooklyniana. Nei primi anni Novanta ha partecipato a una cordata per portare una squadra di Major League a Buffalo, nello stato di New York, ma l’operazione non è andata da nessuna parte.

Larry King nel 1987 (Foto: Ralph Dominguez/MediaPunch /IPX)

L’approdo alla Cnn

King ha iniziato la carriera radiofonica dalle parti di Miami, in quella stagione in cui molto di quel mondo si muoveva sviluppava dalle parti della Florida, e poi è approdato alla Cnn, dove il suo Larry King Show è diventato un’architrave della vita americana. Un calcolo approssimativo dice che ha intervistato nel corso della sua carriera 30.000 ospiti, dai capi di stato agli ossessionati di ufologia. 

(AP)

Ha avuto una vita sentimentale piuttosto turbolenta. Si è sposato otto volte con sette donne diverse, e ha avuto dai suoi molti matrimoni cinque figli. Due di questi, avuti con la terza moglie Alene Akins, una ex coniglietta di Playboy, sono morti ad agosto dello scorso anno, a poche settimane di distanza.

L’entusiasmante avventura umana di King è però legata alla sofferenza. Il padre, un ebreo ortodosso emigrato dall’odierna Ucraina, è morto di un attacco di cuore a 44 anni, quando lui era bambino, e la sua mancanza lo ha gettato in uno sconforto che lo ha portato a disinteressarsi degli studi. Si è diplomato a fatica e non si è mai iscritto all’università. Anche le bretelle, il suo tratto distintivo assieme agli occhiali con la montatura spessa e scura, sono emerse dall’esperienza della malattia. 

Non era mai stato un «tipo da giacca», ha detto, e anche nell’era dei conduttori televisivi vestiti in modo formalmente impeccabile preferiva presentarsi davanti alla telecamera solo con un gilet sopra la camicia. Dopo il primo intervento al cuore aveva perso molto peso, e la moglie gli ha suggerito di indossare le bretelle per sostenere i pantaloni che non calzavano più. Da allora non ha mai smesso di indossarle nei suoi programmi.

(Foto: hoo-me / MediaPunch /IPX)

Quando gli hanno chiesto quale sperava che fosse il suo lascito professionale, ha risposto in terza persona: «La sua vita ha portato molte persone ad avere informazioni che non avevano prima, ci ha insegnato molto e abbiamo imparato molto e allo stesso tempo ci siamo divertiti. Ha portato molto onore al suo settore».

Si definiva un «ebreo agnostico» che non crede nell’aldilà, e negli ultimi anni ha parlato spesso del desiderio che la sua salma venisse criogenizzata, per preservare ciò che sarebbe rimasto delle sue spoglie mortali.

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