È proprio vero che “la mafia non è più quella di una volta”, come recita il titolo dell’ultimo film di Franco Maresco. Me ne ero già accorto qualche anno fa osservando le abitudini alimentari dei nuovi boss di Palermo, così lontane da quelle del vecchio Bernardo Provenzano che nel suo casolare di Montagna dei Cavalli si rifocillava con ricotta di pecora. E al vivandiere che favoriva la sua latitanza, con insistenza chiedeva: «Mi devi procurare quella verdura chiamata cicoria». Pasti frugali, da contadino qual è sempre stato, cresciuto nelle campagne intorno a Corleone. Un mangiare molto diverso dai suoi eredi o presunti tali, che si abbuffano nei ristoranti di Palermo con ostriche e champagne, ordinando solo ciò che è costoso. Sempre un po’ di tempo fa amici carabinieri mi hanno mostrato alcune foto di altri rampolli di Cosa nostra che solcavano il mare del golfo di Mondello sugli acqua scooter, si esibivano rumorosamente, si facevano i selfie. Erano picciotti della famiglia di Porta Nuova, per intenderci quella di Tommaso Buscetta e Pippò Calò. L’apparire non è mai stato un tratto del boss siciliano, sempre discreto, attento a non farsi notare sino all’estremo. Come Tanino Riina, il fratello del capo dei capi, che andava in giro con una malandata Golf che lo lasciava spesso a piedi. Preferiva restare in panne piuttosto che dare l’impressione di potersi permettere un’auto nuova. Tutto il contrario dei napoletani della camorra, chiassosi e vistosi, sempre pronti a ostentare ricchezza. Ma tutto cambia. E se in Sicilia anche i mafiosi sono soggetti a una mutazione antropologica, mai avrei immaginato che i parvenu dei clan palermitani potessero arrivare a tanto e così presto. La notizia l’ho letta sulle cronache siciliane di Repubblica qualche giorno fa, un articolo di Salvo Palazzolo. Una sparatoria che comincia per strada e poi continua virtualmente con minacce incrociate sui social. Cose mai viste. Con feriti veri ricoverati in ospedale e la sfida, dopo le pistolettate, che si trasferisce su Facebook a colpi di messaggi. Ma che fine ha fatto quell’antico detto siciliano «la meglio parola è quella che non dice»?

La sparatoria

La prima scena del crimine è lo Zen, Zona espansione nord, il famigerato quartiere che è grande una piazza di spaccio e a quanto pare ormai mercato aperto e senza controllo dopo la cattura dell’ultimo capo, quel Giuseppe Cusimano che distribuiva la spesa durante il primo lockdown. Finito in carcere, liberi tutti e si sentono i botti. Non è ancora il tramonto e, due martedì fa, sull’asfalto di via San Nicola sono rimasti grandi macchie di sangue e un tappeto di bossoli. Qualcuno ha sparato, qualcun altro è rimasto ferito. Dopo un’ora al pronto soccorso dell’ospedale Villa Sofia sono arrivati in tre. Giuseppe Colombo aveva una lacerazione alla spalla, suo figlio Antonino la caviglia frantumata da una pallottola, Letterio Maranzano un taglio alla nuca. Tutti e tre hanno conti in sospeso. Fino a quando il boss che consegnava pacchi alimentari ai poveri è rimasto in libertà, l’hanno fatta franca. Cusimano ufficialmente è un venditore di bombole di gas che percepisce pure il reddito di cittadinanza, in realtà «controlla» lo Zen e mette pace fra i gruppi. Mette pace a modo suo: vuole uccidere «quei quattro fanghi» che si agitano troppo nel quartiere. I Maranzano non vedono l’ora di vendicarsi dei suoi protetti e preparano l’agguato contro i Colombo. Il martedì, la sparatoria.

Duello pubblico

Fin qui un film già visto. È ciò che accade dopo che lascia senza fiato: la seconda scena del crimine è Facebook. Dopo il ricovero a Villa Sofia il primo che va al contrattacco è Giuseppe Colombo. Ma non parte per un altro raid, la sua rabbia la scaglia con un post: «Il rispetto, gran bella parola, peccato che non tutti ne conoscano il significato». E sotto inserisce la foto di Al Pacino, uno dei protagonisti del Padrino, presa dal sito Dna criminale. Passa qualche ora e un parente dei Maranzano risponde: «I leoni stanno solamente riposando, non vi abbatte nessuno». C’è la foto di due dei Maranzano e pure la musichetta di sottofondo del neomelodico Nello Amato. Controrisposta del Colombo con chiara allusione all’agguato subito dai Maranzano: «Non avere paura di essere solo. I leoni camminano da soli. Le pecore in gruppo». Il duello è pubblico, non proprio il massimo per un’organizzazione che da che mondo è mondo è segreta. Con un retroscena che smentisce anche ogni luogo comune sull’omertà. Una donna testimone dell’agguato racconta alla polizia: «Letterio Maranzano e suo fratello Pietro avevano entrambi una pistola alla cintola, Pietro l’ha estratta dalla tuta, ma non ho visto se ha sparato. Due ragazzi sono scesi invece da uno scooter Honda di colore bianco».

La vicenda dello Zen si chiarirà in ogni sua piega con la ricostruzione della scientifica e le indagini della squadra mobile, ma quello che sappiamo già basta per capire come la «qualità» criminale delle periferie palermitane sia scesa di livello, contaminata dalla smania del manifestarsi. L’anno scorso c’è stato un altro caso che, per ragioni diverse, mi ha molto colpito. Un esattore della famiglia del Borgo Vecchio, tale Salvatore Guarino, si è presentato all’imprenditore Giuseppe Piraino che stava ristrutturando un appartamento nel centro di Palermo. E gli ha detto le solite parole che accompagnano la richiesta d’estorsione: «Sono qui per un contributo per la festa del patrono». Voleva 500 euro di pizzo sui lavori. L’esattore non ha fatto in tempo a finire la frase che l’imprenditore ha iniziato a urlare, ha tirato fuori un quotidiano con le foto dei giudici Falcone e Borsellino e lo ha affrontato a brutto muso: «Si vergogni di chiedere il pizzo, queste sono le vittime della mafia». L’esattore, frastornato, ha balbettato: «Ma è per la festa del patrono». L’imprenditore: «Gliela faccio vedere io la festa». E nel frattempo Piraino registrava tutto. Subito dopo l’esattore del racket se ne è andato con la coda fra le gambe. Grande rispetto per l’imprenditore che non paga e caccia via il manutengolo, ma – diciamolo – non è altrettanto rispettabile, criminalmente parlando, lo “spessore” dell’altro. La spiegazione c’è: con gli arresti di massa degli ultimi vent’anni che hanno scompaginato militarmente le cosche di Palermo, le prime file mafiose sono state sostituite dalle seconde, le seconde dalle terze file, le terze dalle quarte e sono rimasti i Guarino, i Colombo, i Maranzano. Da una parte ci sono sempre più commercianti che si ribellano alla “messa a posto” (così si chiama il pizzo a Palermo) e dall’altra esattori sempre più sprovveduti, controfigure dei loro predecessori.

Per tornare allo Zen, e alle sue fibrillazioni criminali dopo sparatorie vere e virtuali, è un pianeta in ebollizione da quando, nel 2007, sono stati catturati Salvatore e Sandro Lo Piccolo, padre e figlio, il primo latitante per un quarto di secolo. Nei loro covi sono state trovate armi, quasi duecento “pizzini”, una mappa aggiornata della geografia mafiosa che ha permesso agli investigatori di sviluppare profonde indagini. Ma sorpresa – che in qualche modo anticipa ciò che stiamo scrivendo oggi – è stato sequestrato anche un manuale del “perfetto mafioso”. Tutto nero su bianco. Com’è composta la famiglia, chi è il sottocapo, cos’è il mandamento, il ruolo della Commissione o Cupola. E poi un decalogo sui diritti e sui doveri dell’affiliato.

Vale la pena di riportarlo quasi integralmente: «Non si guardano mogli di amici nostri. Non si fanno comparati con gli sbirri. Non si frequentano né taverne né circoli. Si ha il dovere in qualsiasi momento di essere disponibile a Cosa nostra, anche se c’è la moglie che sta per partorire. Si deve portare rispetto alla moglie. Quando si è chiamati a sapere qualcosa si dovrà dire la verità. Non ci si può appropriare di soldi che sono di altri e di altre famiglie. Non può entrare in Cosa nostra chi ha un parente stretto nelle varie forze dell’ordine, chi ha tradimenti sentimentali in famiglia, chi ha un comportamento pessimo e che non tiene ai valori morali». E per buona educazione: «Si rispettano in maniera categorica gli appuntamenti».

Forse il declino criminale dello Zen è iniziato allora e non ce ne siamo resi conto. Per fare un altro confronto con il passato. Ascoltato dalla Commissione parlamentare Antimafia negli anni Settanta, il boss Luciano Liggio di Corleone aveva fatto capire a tutti l’antifona: «Ho letto i classici. E poi storia, filosofia, pedagogia. Ho letto Dickens, Dostoevskij, Croce. Ma quello che ammiro di più è Socrate. Perché, come me, non ha mai scritto niente».

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