Spore, a Milano, è il ristorante da provare per capire come proporre e integrare le fermentazioni in cucina. Protagonisti indiscussi i legumi, cibo povero per eccellenza
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
C’è una porta in vetro e ferro battuto, un locale dai colori tenui e dall’illuminazione calda - cucina a vista, bancone in legno -, e una piccola scala in pietra che, scendendo al piano inferiore, divide due spazi definiti, ma interdipendenti: sopra ristorante e sotto laboratorio.
Se si potesse sbirciare dentro l’anima professionale di Mariasole Cuomo, 30 anni, ci si renderebbe conto, probabilmente, che la divisione degli spazi rispecchia quella del suo locale. Spore ha aperto a Milano nel 2020, un progetto innovativo, coraggioso, che propone una cucina che Cuomo definisce, pur non amando le etichette, «a base di fermentati». Protagonisti indiscussi sono i legumi, cibo povero per eccellenza, tradizionale sì, ma ancor più versatile.
La doppia anima della “chef-scienziata”
Una grande passione per la gastronomia, ereditata, in parte, delle origini campane, e l’amore, sin da bambina, per la cucina asiatica. «L’interesse per il cibo orientale l’ho scoperto grazie a mia madre, ottima cuoca, che preparava spesso i piatti giapponesi di cui mio padre raccontava di ritorno dai suoi viaggi di lavoro: a casa nostra un giorno c’era la parmigiana e il giorno dopo le verdure saltate con la soia». Dopo il liceo Mariasole studia scienze gastronomiche a Pollenzo (Cuneo), dove si appassiona al lato scientifico della cucina.
«Quando ho sentito parlare di fermentazione per la prima volta mi sono illuminata: l’ho percepita vicina a me, alle mie tradizioni, perché nella mia famiglia da sempre si fanno conserve di tutte le verdure immaginabili - spiega - e poi è una tecnica che ha un lato scientifico, ma è molto prossima al cucinare». A Copenaghen Mariasole approda dopo l’università, frequentando un master in Food Innovation, a cui seguono due anni nelle cucine della chef sino-cambogiana Lisa Lov, che la ragazza affianca in qualità di “creative sous chef”, dedicando quindi buona parte del proprio tempo alla ricerca. Infine, un periodo nei locali del Fermentation Lab del ristorante Noma, tempio tristellato della cucina d’avanguardia. Nel 2020 è ora di tornare in Italia, con la valigia piena di conoscenza da mettere al servizio di un progetto tutto suo.
Il legume che non ti aspetti
Da un’idea che Cuomo condivide con il compagno Giacomo Venturoli, che si occupa della sala e dei vini, nasce Spore. Menu fisso con qualche proposta opzionale, piatti da condividere, sapori decisi, in parte nuovi, ma sempre pensati. Tra koji, doubanjiang, miso e shoyu, le tecniche ricordano quelle dell’oriente, ma la filosofia è applicarle agli alimenti tipici dell’Italia, primi fra tutti i “nostri” legumi: ceci, fagioli e lenticchie. «Questi si prestano in modo particolare alla fermentazione, perché nel momento in cui le loro proteine vengono scomposte in amminoacidi, si forma il glutammato, il gusto dell’umami, che rende irresistibili tantissime cose».
Da ingrediente apparentemente semplice, dunque, tramite la fermentazione il legume sviluppa sapori più spinti. «Al contrario della soia, che cambia completamente gusto nella trasformazione, alcuni dei legumi più usati in Italia invece lo mantengono: anche dopo sei mesi di fermentazione un miso di lenticchie non perde il sapore della materia prima», spiega. L’applicazione delle tecniche ai “nostri" legumi non è una novità. «Non ho inventato nulla - sottolinea Mariasole - il Noma lo fa da tanti anni, in Italia un esempio è Nesler, è un’intuizione facile, la bravura e l’innovazione stanno nel rendere proprie le tecniche e scegliere gli ingredienti giusti».
Da Milano a Modena: la cucina di Garum
Sulla scena milanese Spore è stato preso d’assalto quasi subito, nonostante, come racconta Cuomo, lei e il compagno avessero deciso di «aprire in sordina», senza farsi troppa pubblicità. Nulla di strano, forse, in una metropoli che si professa “internazionale”, non a torto, soprattutto dal punto di vista culinario. Diversa è invece la storia di Garum, a Modena, aperto nel 2019 da Luca Ferraguti (34 anni) e Luca Bevini (36 anni), entrambi chef.
Un progetto che in una città più piccola e dall’identità culinaria molto forte avrebbe potuto incontrare qualche difficoltà. Ma così non è stato. «La curiosità dei clienti è quello che ha fatto la nostra fortuna - dice Ferraguti - la gente entra nel locale, vede tutti questi barattoli e vuole provare, capire». Figlio d’arte, si forma nella cucina del papà, proprietario di un ristorante modenese tradizionale, ma la vera svolta per lui, avviene dopo un viaggio a Kyoto e un piatto di riso e verdure fermentate che sono state le sua epifania.
«Ero in viaggio con amici, mi portano ad assaggiare questo piatto tradizionale e mangiando le verdure separatamente le trovavo molto sapide e acide, non è che fossi entusiasta, - racconta Ferraguti -, quando il mio amico mi ha spiegato che era tutta una questione di equilibri tra gli elementi, che andavano combinati insieme, ho iniziato a trovare la cosa molto interessante». Da lì comincia un lavoro di studio e ricerca dapprima da autodidatta, poi confrontandosi con lo chef vicentino Lorenzo Cogo e infine affinando alcune tecniche con uno stage al Sadler di Milano, una stella Michelin.
Fagioli cannellini e lenticchie
Anche Ferraguti, come Cuomo, utilizza soprattutto legumi tipici della cucina italiana. «Il mio preferito per la fermentazione è la lenticchia, non tanto per il risultato in sé, ma per la facilità della loro lavorazione: sono piccole e si riescono a lavare bene, hanno bisogno di poco ammollo e il tempo di cottura è minimo».
Uno dei piatti firma dello chef è il tempeh, preparazione tipica indonesiana, che lui però reinterpreta in chiave territoriale. Per Mariasole, invece, è una questione di intensità. «Amo lavorare con i fagioli cannellini, che in fermentazione si comportano in modo molto simile alla soia: perdono il loro sapore delicato e diventano super umami», spiega. A ognuno il suo, dunque, ma la filosofia alla base è la stessa: sostenibilità e gusto, due valori che, in progetti efficaci, si reggono a vicenda.
Il lusso di un cibo povero
Nutrienti e facili da coltivare, i legumi in Italia sono il filo conduttore della cucina popolare, più ancora delle patate e dei pomodori, arrivati nella nostra Penisola solo dopo la scoperta dell’America. Ogni regione possiede almeno una ricetta che ha come protagonisti lenticchie, ceci o fagioli. Tuttavia, la loro fermentazione potrebbe contribuire a regalargli un nuovo status nella scala sociale degli alimenti, o, perlomeno, a farli entrare con ancora più forza nelle cucine di alto livello.
«Ad oggi la cosa che costa di più è proprio il tempo - osserva Cuomo - in questo senso i legumi lavorati si possono considerare un cibo quasi di lusso». Ferraguti, invece, sottolinea come il bello di lavorare con ingredienti del genere sia proprio il fatto che siano poveri, ma diano vita a sapori intensi, inediti e decisamente “ricchi”. «È soddisfacente partire da un alimento umile e trasformarlo in qualcosa che faccia dire “wow” al cliente».
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