La narrazione è diversa in base all’età, ma la cultura è la stessa. Intanto la premier parla di «svolta culturale». Ma servono risorse
La strage è sistemica e la violenza di genere democratica, e quindi attraversa classi sociali, età, titoli di studio, provenienze. Lo dimostrano i due femminicidi registrati in soli tre giorni: Fernanda Di Nuzzo, 61 anni, maestra di scuola dell’infanzia, è stata accoltellata dal marito Pasquale Piersanti a Grugliasco, vicino a Torino. La donna è morta il giorno successivo, ma al momento del ricovero in rianimazione le condizioni erano già gravissime. Martina Carbonaro aveva invece 14 anni, era studente, e a confessare il suo femminicidio è stato Alessio Tucci, un ragazzo di 19 anni con cui aveva avuto una relazione, che lei aveva deciso di interrompere.
«Lo schema è ricorrente, legato a dinamiche di potere e di controllo», dice Sveva Magaraggia, professoressa di Sociologia all’università degli Studi di Milano Bicocca, «e solo una parola come “strage” restituisce la gravità: gli uomini non uccidono perché perdono la lucidità ma perché tutto il sistema culturale minimizza la violenza contro le donne».
Se l’età delle ragazze uccise per mano di partner o ex partner si sta abbassando, c’è una strage silenziosa e invisibile anche tra le donne più adulte e anziane, che sono spesso sottorappresentate nella narrazione mediatica. Eppure circa un terzo delle donne vittime di femminicidio ha più di 65 anni e, a differenza di quanto accade con le giovani generazioni, il fenomeno rimane ancora sommerso. Così come sono ancor più sottorappresentate le donne di origine straniera e le sex worker. E gli orfani di femminicidio: i minorenni sono 3.592, secondo la presidente dell’Osservatorio nazionale indipendente sentita dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio. Di Nuzzo è stata uccisa dal marito davanti alla figlia di 24 anni con disabilità intellettiva.
«Mediaticamente funziona di più dare la notizia del femminicidio di una ragazza giovanissima, piuttosto di parlare di una donna adulta che va verso l’anzianità», continua Magaraggia, secondo cui il racconto è dettato dalle regole della notiziabilità, «ma i meccanismi alla base di tutti i femminicidi sono sempre gli stessi: il possesso, l’idea sbagliata di amore, la narrazione dell’amore romantico».
Anche se il mondo del giornalismo per l’esperta ha fatto passi in avanti, introducendo ad esempio il termine femminicidio. «Non basta, perché contiamo un femminicidio ogni tre giorni», dice la docente. Nel primo trimestre del 2025, secondo i dati del ministero dell’Interno, quelli che vengono chiamati omicidi di donna sono stati 17, di cui 14 in ambito familiare e affettivo, 10 da partner o ex partner. Ma il femminicidio è solo l’apice di una serie di violenze, psicologiche ed economiche, fatte da atti persecutori, aggressioni fisiche. Anche i reati sentinella sono in aumento, o almeno le segnalazioni: gli ultimi dati Istat sul numero antiviolenza 1522 segnalano un aumento dell’8,8 per cento delle chiamate nell’ultimo trimestre del 2024, del 25,8 se si considera l’intero anno rispetto al precedente. Nel 2024, sono state 74 le chiamate fatte da persone con meno di 17 anni, 208 tra i 18 e i 20.
«Fare rumore»
Il femminicidio di Carbonaro ha portato, da nord a sud, gli studenti e le studenti liceali e universitari a «fare rumore» chiedendo un cambiamento radicale della cultura patriarcale che legittima il possesso e la violenza. Perché il cambiamento avvenga, chiedono l’educazione sessuo-affettiva nelle scuole di ogni ordine e grado, che sia sistematica e non occasionale.
«La chiede la comunità studentesca in tutta Italia», spiega Pietro Marconcini, rappresentante di istituto del liceo Plinio di Roma, dove lo scorso anno gli studenti hanno realizzato un progetto, approvato dal collegio docenti, ma senza finanziamenti. Con la partecipazione a titolo volontario di diverse realtà romane, come Lucha y Siesta, la Casa internazionale delle donne e l’associazione Maschile plurale, si sono formati.
«Ma senza una copertura economica né l’obbligatorietà dell’insegnamento, non è un modello replicabile», dice Marconcini, evidenziando come la necessità del consenso dei genitori e del collegio docenti ha permesso la partecipazione di sole 14 su 59 classi. Al Plinio, grazie alla comunità studentesca, lo sportello psicologico è diventato anche uno sportello antiviolenza. «Molte persone si sono affacciate, non soltanto studenti ma anche genitori e insegnanti», aggiunge lo studente.
Partire dall’educazione
L’educazione sessuo-affettiva è ancora un miraggio nelle scuole italiane. La premier Giorgia Meloni ha espresso solidarietà alla famiglia di Carbonaro, spiegando che il governo ha approvato «finora molti provvedimenti» ma, ha aggiunto, «le norme non saranno mai sufficienti se non daremo vita a una profonda svolta culturale e sociale». Peccato che la cultura patriarcale, millenaria, non possa essere cambiata a fondi zero e allocare le risorse è una scelta politica.
«Non possiamo dare per scontato che gli stereotipi scompaiano di generazione in generazione, è un lavoro che bisogna fare in modo capillare e costante», spiega la docente Magaraggia, perché «ci sono meccanismi culturali che ancora richiamano l’idea di possesso». Il lavoro legislativo deve essere accompagnato, aggiunge, da una trasformazione culturale, da portare avanti nelle scuole: «Bisogna insegnare ai bambini, ai ragazzi, agli uomini la cura, a non avere paura di avvicinarsi al proprio mondo emotivo. Di essere liberi di poter piangere, esprimere l’eterogeneità del mondo emozionale, non solamente la rabbia».
Magaraggia, nei suoi 15 anni di esperienza di lavoro in università, ha notato un cambiamento nei ragazzi e nelle ragazze: la capacità di mettersi in gioco è maggiore, così come quella di riconoscere e dare un nome alla violenza vissuta.
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