La sequenza di femminicidi che coinvolgono uomini e donne giovanissime costringe a sporgersi su un vuoto di senso. Cos’è che fa della violenza estrema un “rimedio” all’insostenibilità di un conflitto, di una delusione, di un rifiuto? E cosa si cela dietro quell’insostenibilità?
Sono ragazzi all’apparenza fragili, fragilissimi, incapaci di sostenere il rifiuto di una coetanea o un abbandono sentimentale; eppure, si rivelano capaci di commettere crimini di violenza inaudita. Sono maschi in età adolescenziale, o poco più, la cui vita dovrebbe essere aperta al futuro; e che vivono invece la frustrazione per la fine di una relazione come la perdita di ogni orizzonte, intravedendo una via d’uscita solo nell’uccisione di quella donna da cui sembra dipendere la sopravvivenza stessa del sé.
La sequenza di femminicidi che coinvolgono uomini e donne giovanissime – l’ultimo quello con cui Alessio Tucci, 19 anni, ha tolto la vita a Martina Carbonaro, 14 anni – costringe a sporgersi su un vuoto di senso. Cos’è che fa della violenza estrema un “rimedio” all’insostenibilità di un conflitto, di una delusione, di un rifiuto? E cosa si cela dietro quell’insostenibilità?
Cultura del controllo
Parlare di cultura del controllo e del possesso, radicata in una storia di assoggettamento delle donne al potere maschile, coglie senz’altro il punto. Ogni mano maschile che uccide una donna in quanto donna, armata dal rifiuto di accettarne e sostenerne la libertà, manifesta la persistenza di un ordine materiale e simbolico fondato sul dominio degli uomini e l’oppressione delle donne. Insomma, di ciò che chiamiamo patriarcato.
Eppure, lo sgomento che produce ogni nuovo caso di violenza efferata tra le nuove generazioni si deve anche allo stridore che avvertiamo tra sistemi valoriali, norme sociali e dispositivi di giustificazione del passato e del presente. In un tempo in cui il diritto ha fatto avanzamenti fenomenali nel riconoscimento delle forme di violenza e nella predisposizione di strumenti per la prevenzione e il contrasto, l’aumento di vittime e carnefici minorenni o giovanissimi suscita interrogativi nuovi o ulteriori.
Identità fragili
Da un lato, il fenomeno rivela il generale ritardo nel processo di trasformazione della cultura diffusa, a dispetto dell’innovazione nelle normative. Proprio la messa in discussione delle norme di genere tradizionali si scontra con la mancanza o indisponibilità di nuovi modelli di maschilità, dove trovino spazio capacità emozionali e comunicative, attitudini rivolte alla condivisione e alla cura. Qui è una delle radici della violenza maschile contro le donne, che trasforma in pretesa di dominio la percezione di perdita di potere.
Dall’altro, non si può ignorare che, se parliamo di giovani e giovanissimi, la persistenza dell’antica radice patriarcale si intreccia con la profonda incertezza in cui è avvolto il presente, e con la percezione di mancanza di futuro che le indagini demoscopiche rivelano tra le nuove generazioni.
Colpisce infatti, in queste storie di controllo ossessivo, gelosia patologica, indisponibilità al confronto e avversione al rifiuto, la misura di dipendenza degli autori di violenza dalle donne che hanno designato come “loro”. La relazione con una donna che possano chiamare “loro” diventa per questi uomini un puntello dell’identità fragile, a cui si aggrappano come piante rampicanti, incapaci di sviluppare un’autonomia serena.
L’ansia identitaria, la ricerca disperata di un posto nel mondo, trova così nella violenza uno strumento per ripristinare la parvenza di un ordine in cui sentirsi al sicuro. E qui è un’altra radice del fenomeno che stiamo indagando.
La visione della destra
Non è casuale che l’inasprirsi di queste forme di violenza letale avvenga in un contesto in cui entrambe le radici sono alimentate su scala più ampia dalla visione della destra radicale, che mira a farsi egemone, in cui la risposta allo smarrimento culturale e al senso di perdita di status dei gruppi storicamente dominanti passa attraverso una promessa d’ordine. La promessa di ripristinare un ordine “naturale” della società, che rinsaldi le gerarchie di genere, sessualità, “razza”, classe.
La violenza, a livello micro come a livello macro, appare come un mezzo per ricomporre (almeno immaginativamente) un ordine disuguale. E riconoscerla e combatterla, partendo dalle generazioni più giovani, è tutt’uno con la resistenza al pericolo autoritario che avanza.
© Riproduzione riservata