È tornato il ghiozzetto di laguna e quello cenerino, tipici pesci di acqua salmastra, ma anche cefali e anguille. Ritornano il martin pescatore, i fenicotteri e il tarabuso. Ma la lista non si ferma qui perché, negli oltre quattro anni del progetto Life Lagoon Refresh, sono oltre 30mila gli uccelli censiti nell’area. Un grande intervento di rinaturalizzazione di una parte della laguna di Venezia che, grazie al ripristino del gradiente salino e delle superfici di canneto prima scomparse, ha permesso di riqualificare un ecosistema scomparso da secoli. La laguna di Venezia infatti ha subito profonde modifiche già dal XVII secolo, quando gli interventi antropici hanno portato alla deviazione di molti dei fiumi che sfociavano nell’alto Adriatico, causando la scomparsa dei tipici ambienti salmastri e a un aumento della salinità delle acque. «Questi ambienti oggi sono pregiati e trovano protezione nella direttiva Habitat e uccelli», spiega la ricercatrice Ispra Rossella Boscolo, responsabile del progetto. «Si tratta di ambienti di transizione fisica, chimica ed ecologica». Un ambiente unico nel suo genere, frutto di un delicato equilibrio tra l’apporto di acqua dolce dei fiumi e quella salata del mare che crea un habitat che varia di chilometro in chilometro e dove piante e animali si sono specializzati per vivere in queste particolari condizioni.

L’importanza della laguna

Foto AGF

Nel nostro paese questo specifico habitat copre una superficie di oltre 700 chilometri quadrati e rappresenta quello di maggiore estensione tra gli ambienti acquatici di transizione. La sua distribuzione è diffusa nella maggior parte delle regioni costiere, ma con una netta prevalenza proprio nelle lagune dell’alto Adriatico.

Tra barene e canneti, si articolano canali che cambiano continuamente e modellano il paesaggio lagunare. Ma modellano anche la costa: questo habitat ospita infatti una classe di piante, ovvero le fanerogame acquatiche, adattate a vivere in ambienti completamente sommersi.

Come avviene con le praterie di posidonia, anche in questo caso la presenza di vegetazione acquatica permette di ridurre l’effetto idrodinamico, contrastando l’erosione costiera. Non sono quindi importanti solo per fauna e flora, che qui ci vive e prospera, ma risulta utile anche per chi, come l’uomo, vive nell’entroterra.

La laguna, come il delta del Po è molto vulnerabile, tanto che la pianura costiera che li circonda è generalmente al di sotto del livello marino, anche di oltre quattro metri, e di conseguenza il rischio idrogeologico e ambientale associato è particolarmente elevato, con rischi di inondazione e desertificazione.

Ma le aree umide come la laguna sono fondamentali anche per il contrasto ai cambiamenti climatici, dato che sono capaci di immagazzinare una maggiore quantità di carbonio per unità di superficie rispetto alle foreste.

Un’opera a basso impatto

Il taglio (così viene definito il canale realizzato che porta l’acqua in laguna) è stato realizzato riducendo al massimo gli impatti, tanto che l’immissione di acqua dolce proveniente dal fiume Sile, storicamente uno degli affluenti della laguna, avviene per gravità, come accadrebbe in condizioni di elevata naturalità.

Per non disperdere la preziosa risorsa, i ricercatori hanno convogliato l’acqua attraverso dei cordoni biodegradabili, e successivamente, collaborando anche con i pescatori locali, hanno trapiantato circa 2.500 zolle di canneto e duemila zolle di fanerogame sommerse, che ben presto si sono trasformate in nursery e in cibo per la fauna bentonica, l’ittiofauna e l’avifauna.

«Reimmettere acqua dolce significa andare controcorrente rispetto a quello che è stato fatto nei secoli», sottolinea la dottoressa Boscolo. Significa cioè sovvertire almeno in parte gli impatti dell’uomo che nei secoli ha “rubato” alla laguna l’acqua dolce per gli usi irrigui e civili, e ripristinare il corso naturale di un tratto di fiume.

Quel che è certo è che quel metro cubo al secondo che entra nella laguna, rispetto ai 30 metri cubi in media, ha dato dei risultati degni di nota e che fanno ben sperare per la replicabilità del progetto.

Come spiega la stessa responsabile del progetto, l’intervento ha permesso di modificare la salinità delle acque che è passata dai 30 tipici della laguna (quella di mare va dai 34 ai 37 circa), a un range che va da zero a 25/28 in un’area di ben 70 ettari. «Per circa 20 ettari si va anche al di sotto dei 15, ovvero il valore limite dove può crescere o meno il canneto».

Così nei quattro anni e mezzo di monitoraggio, i ricercatori hanno censito complessivamente più di 32.637 uccelli, oltre al ritorno di esemplari tipici degli ambienti a bassa salinità. E nel tempo si è vista la vegetazione trasformarsi: nell’area vicina al punto di immissione dell’acqua le specie amanti dell’elevata salinità delle barene sta lasciando il posto al canneto che ha ormai attecchito in tutte le aree con salinità idonea e si sta progressivamente diffondendo intorno alle zone di trapianto.

Tra settembre e ottobre 2021 si è assistito alla fioritura dell’astro marino e da giugno 2022 l’inula tinge di giallo i bordi delle barene più dissalate. Ottimi i risultati ottenuti anche con le piante acquatiche sommerse che oggi formano chiazze anche di parecchi metri di diametro.

È un effetto a cascata, decisamente positivo. «Il canneto ha una funzione depurativa per le acque», conclude la ricercatrice. «E questo fa sì che il gioco tra acqua dolce e salata richiami alcune specie di pesci, che così aumentano di numero».

Questione di adattamento

Quando di parla di adattamento ai cambiamenti climatici, spesso si fa riferimento a tutte quelle azioni che sono e saranno utili a contrastarne gli effetti. E, nella lunga lista di opere da intraprendere le cosiddette soluzioni basate sulla natura (Nature Based Solutions) risulteranno essenziali.

Non si tratta infatti di un mero esercizio di ecologia, o di qualche idea più o meno originale di qualche istituto di ricerca. Ma si tratta invece di un concetto che riscontra un ampio consenso a livello scientifico e che ci dice che non sarà sufficiente proteggere o conservare le aree protette.

Ma anzi dovremmo rinaturalizzare ampie porzioni del pianeta se vogliamo proteggerci dagli effetti di eventi estremi, dall’aumento delle ondate di calore o del livello del mare. Nel 2015 Edward Osborne Wilson, uno dei biologi più importanti del nostro tempo, lanciò la sfida di tutelare almeno la metà delle terre emerse e degli oceani, per poter vivere in equilibrio con le risorse del pianeta e fronteggiare la crisi che stiamo vivendo. Ad oggi siamo solo al dieci per cento, ma progetti come questo stanno indicare la strada giusta da percorrere.

© Riproduzione riservata