«La cosa che mi spaventa di più è di poter morire da un momento all’altro senza aver mai conosciuto il nome di mia mamma». Occhi azzurri, pizzetto e baffi brizzolati, pochi capelli, Tullio Aldorisio il prossimo 27 agosto compirà 65 anni.

È dal 2004 che cerca di sapere il nome di chi l’ha messo al mondo, ma solo diversi anni dopo la legge gliene ha dato qualche possibilità. Con i suoi genitori adottivi non ne ha mai parlato. Né da adulto, quando l’estratto di nascita ottenuto di nascosto gli ha fatto scoprire il suo primo nome: Pelvio. Né da bambino, quando la madre lo portava alla chiesa dell’Annunziata per riempire il panierino degli orfanelli, ‘e figli ra maronna come li chiamano a Napoli, dove Pelvio è nato e Tullio è cresciuto.

«Una volta, un frate uscì da lì, mi accarezzò la testa e disse a mia madre: “non lo portate più, si è fatto grande”», racconta indicando una delle entrate laterali della basilica. Siamo a Forcella, in uno dei complessi architettonici più antichi e misteriosi della città. Qui, per secoli, migliaia di donne hanno lasciato figli che non potevano crescere senza svelare l’identità.

E qui, il 25 marzo di ogni anno, quei figli tornano. Per i cattolici è il giorno dell’Annunciazione, per loro è quello in cui dire «grazie». Da piccolo Tullio non lo poteva sapere e, nonostante i sospetti crescessero con l’età, solo dopo la scomparsa dei genitori adottivi ha iniziato a cercare informazioni sulle sue origini.

Così ha fatto anche Giammichele Meloni. Prima di avere questo nome Giammichele è stato Ettore e, prima ancora, il numero 454 del brefotrofio di Milano nell’anno 1959. Lui lo ha saputo fin da piccolo. «Anche io sono nato dalla tua pancia?» chiese alla madre quando vide per la prima volta una donna incinta. Gli fu risposto: «No, ci sono modi diversi di essere mamma». Nel tempo, fu lei stessa a incoraggiarlo a cercare la madre biologica.

Foto di: Serena Laezza

Prima del 2013, però, né Tullio né Giammichele avrebbero potuto farlo. Solo undici anni fa, infatti, una sentenza della Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima quella parte della normativa sulle adozioni nota come “legge o punizione dei 100 anni”.

Ai figli nati da parti in anonimato non era permesso conoscere l’identità della propria madre biologica se non dopo aver spento le 100 candeline. Nella stragrande maggioranza dei casi voleva dire: mai.

La legge ha recentemente ispirato il film Il più bel secolo della mia vita in cui il regista, Alessandro Bardani, immagina un trentenne e un centenario affrontare la ricerca in modi diversi. Anche nella realtà non esiste un procedimento univoco. Dopo che la legge è stata in parte abrogata, è in vigore un sistema detto “alla francese”. I figli non riconosciuti alla nascita, dopo i 25 anni, possono presentare un’istanza al tribunale per i minorenni del comune dove risiedono.

Dopo l’istanza, i giudici provano a risalire all’identità della donna, che al momento del parto ha deciso di «non consentire di essere nominata», per chiederle se vuole ripensarci. In molti casi è troppo tardi.

Ancora più spesso non si riesce ad andare oltre la ricerca di documenti. E non di rado chi presenta istanza ottiene risposte che scoraggiano o sottovalutano i motivi dell’indagine. Giammichele ha potuto conoscere il nome di sua madre biologica, morta nel 1980, perché, per il giudice, non c’erano più ragioni per nasconderlo.

In altri tribunali, il diritto alla privacy della donna avrebbe potuto essere tutelato anche post mortem. Tullio, invece, non ha avuto nessuna risposta e ritiene che non siano state fatte ricerche scrupolose. «Quando i carabinieri mi hanno detto che la mia documentazione non esiste, ho pensato: “allora io non esisto?”» racconta nello sconforto.

«Sono procedimenti molto complessi che prevedono l’acquisizione di documenti usurati dal tempo e di difficile consultazione, ma soprattutto tanta delicatezza nel rapporto con le persone» spiega Vanessa Carocci, giudice onorario del tribunale minorile di Roma. Qui opera un team specializzato che include lei, la presidente Lidia Salerno, uno psicoterapeuta e un poliziotto. «Anche questo ci dà il polso di quanta attenzione e cura c’è nei confronti della materia» evidenzia Carocci insistendo sull’importanza della formazione. Ogni tribunale fa, però, a modo suo. A raccontarlo è Emilia Rosati che, insieme ad Anna Arecchia, nel 2008 ha fondato il Comitato nazionale per le origini biologiche.

«Se a Roma hanno degli specialisti, altrove si affidano ai carabinieri o ai vigili. E loro, poveracci, non sanno dove mettere le mani o hanno altre emergenze» dice, sorseggiando un caffè. Orecchini sgargianti, al mignolo sinistro un anello con la Mitra di San Gennaro, anche Emilia il 25 marzo di ogni anno va alla Chiesa dell’Annunziata a Napoli. Ed è qui che, a 21 anni, nel 1973, trova il certificato di battesimo e la conferma di essere stata adottata.

Foto di: Serena Laezza

«Fui travolta da questa scoperta. Cominciai a pensare che tutto quello che avevo, ed ero, era falso» ricorda, sottolineando l’importanza di essere seguiti in momenti come questi. Spesso si affrontano scoperte difficili, come storie di violenze o incesti. Altre volte, la madre può decidere di non svelare il suo nome e quel «no» è vissuto come un nuovo abbandono. «Ma la verità organizza la verità» insiste Rosati «ed è anche per questo che serve una legge chiara».

La ricerca

Spinte dalla disperazione diverse persone hanno fatto ricorso alla corruzione per scovare documenti a loro preclusi. Sui social, accanto agli annunci di chi cerca, si trova chi offre di fare foto ai documenti secretati dietro compenso. C’è però chi segue le regole o vorrebbe seguirle.

In più di 15 anni di attività, il comitato ha aiutato centinaia di persone nella ricerca delle loro origini ed è stato promotore di 9 disegni di legge. Quello che è andato più avanti, voluto dall’onorevole Luisa Bossa, si è fermato dopo l’approvazione alla camera nel 2015. Oggi, è in attesa di essere calendarizzato uno firmato dal deputato della Lega Gianpiero Zinzi.

A riaccendere i riflettori sul tema, sulla scia del successo del film di Bardani, è stata lo scorso 13 marzo la senatrice del M5s Elisa Pirro che ha presentato una mozione e promosso un convegno in parlamento.

«La ricerca delle proprie origini — aggiunge Elisa Pirro — è un passaggio chiave nella definizione della propria identità, per questo ho presentato una mozione volta a bilanciare i diritti dei figli di conoscerle con quelli delle madri che partoriscono in anonimato».

Al tavolo dei relatori del convegno anche il noto magistrato Alfonso Sabella, per il quale «il vuoto legislativo determinato dalla sentenza della Consulta non assicura ai cittadini l’eguaglianza anche per le informazioni di carattere sanitario». Per i figli nati da genitori ignoti è infatti impossibile prevenire malattie a carattere ereditario.

Negli anni si sono opposti alla revocabilità dell’anonimato, in un’inedita unità di intenti, movimenti per la vita e associazioni femministe. I primi temono che possa favorire gli aborti o gli infanticidi. Le seconde che possa ledere l’autodeterminazione delle donne. Anche in questi ambienti, però, le posizioni non sono univoche.

«Quando una donna, che non può tenere un bambino, lo abbandona è quasi una martire» sostiene Francesca Siena, responsabile del centro aiuto alla vita Roma Ardeatino. Il centro, ospitato dalla parrocchia di Santa Giovanna Antida Thouret, offre sostegno alle donne incinte in difficoltà. La stanza in cui Siena parla è piena di scarpe e vestiti per bambini, passeggini, biberon. Da qualche tempo, per le donne, c’è anche la possibilità di chiedere ospitalità in un appartamento affittato dall’associazione.

«Non è mai capitato che madri che si sono rivolte a noi abbiano ricorso al parto in anonimato» racconta Siena sottolineando che, a suo avviso, accade solo quando ci si ritrova completamente sole. «Io parlo per me» ripete più volte, ma «per una mamma che ha fatto questa scelta estrema, la possibilità di riabbracciare un figlio (per cui magari si provano sensi di colpa) non è traumatica. È un cerchio che si chiude per entrambi».

A pensarla allo stesso modo è Luisa Di Fiore, presidente di Figli adottivi e genitori naturali (Faegn). L’associazione ha organizzato un convegno lo scorso dicembre a Roma in cui si è parlato della revocabilità dell’anonimato anche alla luce di possibili scelte prese non liberamente (perché troppo giovani o costrette) o addirittura non consapevolmente (come risulterebbe da alcuni casi di compravendita di neonati dichiarati morti alle loro madri).

Occhiali neri spessi, voce risoluta, Di Fiore racconta che l’associazione è nata quasi per caso, tra il 1999 e il 2000. «Mentre imparavo a usare internet, la prima cosa che mi è venuta in mente è che la mia storia fosse dentro questo mondo virtuale». Faegn facilita l’incontro tra figli e genitori naturali e lavora prettamente online.

Le ricerche sono però indirizzate a fasce d’età alte, di persone che in genere non sono iscritte sui social. Anche per questo l’associazione incoraggia, in parallelo, le ricerche per Dna.

Diffuse da tempo negli Usa, permettono di raccogliere il proprio corredo genetico tramite un kit che arriva a casa. I risultati sono inseriti in un database e incrociati con quelli di persone da tutto il mondo.

Quando c’è un’elevata corrispondenza, arriva una notifica. È così che Anna Cervelli - tra le poche persone a essere riuscita a trovare la madre viva - ha saputo dove viveva la sua famiglia biologica. «Un giorno fui contattata da un cugino di terzo grado che viveva in Francia che mi raccontò di avere antenati vicino Foggia».

È lì che il tribunale indirizzò le sue ricerche ed è lì che, dopo più di 60 anni di attesa, Anna ha potuto abbracciare sua madre. Caschetto biondo cenere, occhi buoni, la madre l’aveva avuta a 14 anni e la credeva morta.

La voce le trema quando ricorda: «Volle che restassi a casa sua per la notte da subito. Mi disse: “Sai figlia mia, ognuno ha il diritto di dormire almeno una volta nel letto della mamma”».

Fonte: Serena Laezza

La scheda

Secondo il Comitato diritto alle origini biologiche, in Italia esistono circa 400.000 figli non riconosciuti alla nascita. La stima è però difficile da confermare data l’assenza di un registro nazionale dedicato sia rispetto agli anni ‘40 e ‘50, quando il fenomeno era molto più esteso, sia rispetto ai nuovi nati.

Un’indagine, condotta dalla Società italiana di neonatologia in collaborazione con il progetto Ninna Ho, ha fatto emergere che, su un campione di 80.060 neonati, solamente 56 non erano riconosciuti dalle loro madri, pari allo 0,07 per cento del totale. L’analisi risale, però, a 10 anni fa. Se invece si guarda alle dichiarazioni di adottabilità di minori con genitori ignoti i dati forniti dal ministero della Giustizia sono più recenti.

Indicano che si è passati da 505 nel 2006 a 173 nel 2021. Un numero che comprende figli nati in ospedale da parto in anonimato, minori stranieri giunti in italia senza genitori o parenti nei paesi d’origine, e neonati affidati alle “culle per la vita”, strutture che permettono alle madri in difficoltà di lasciare anonimamente i propri figli, garantendo loro sicurezza e cura. In assenza di una legge che disciplini il lavoro dei tribunali, manca anche il numero di figli non riconosciuti che chiedono di aver accesso alle proprie origini biologiche.

Le associazioni stimano 400 casi l’anno. Un dato in linea con l’ultimo disponibile relativo al 2019 e contenuto nella quinta relazione sull’attuazione della legge 149/2001. Tutti i 29 tribunali per minorenni d’Italia hanno ricevuto richieste di accesso. Nel caso del tribunale di Roma, dal 2017 al 2021 sono state presentate 250 istanze: in 26 casi non si è arrivati all’identificazione della madre, in 120 è risultata deceduta e in 27 ha accettato di rimuovere l’anonimato.

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