Non ho mai pianto tanto quanto quel giorno a Genova. Infatti, non succede tutti giorni che un lacrimogeno ti cada sulla scarpa. Il proiettile ce l’ho ancora, è il mio souvenir personale del G8 del 2001.

All’epoca ero corrispondente dall’Italia per il quotidiano olandese Algemeen Dagblad. Avevo seguito con attenzione il lungo preludio al G8: la crescente protesta no global, i disordini di Göteborg e Napoli, il dibattito sulla scelta di Genova come sede, le previsioni cupe. Il 13 luglio, in margine a un briefing del Genoa Social Forum, parlo con Matteo, un trentenne magro con una t-shirt con la scritta “Voi G8, noi 6 miliardi”. Il ragazzo si presenta come rappresentante delle tute bianche ed è piuttosto battagliero: «Idranti, lacrimogeni e manganelli non ci possono fermare. Entreremo nella zona rossa, se necessario con le armi. Dappertutto in città abbiamo nascondigli e magazzini nascosti e contiamo su 10-20mila persone. Abbiamo caschi, scudi di plexiglas, occhiali da saldatore e catapulte per rispedire i proiettili. Genova è una città medievale e come tale la prenderemo, con ariete e martello e con le scale». Intitolo il mio pezzo Genova si prepara alla guerriglia urbana. Mi accredito, ma non per seguire i lavori dei grandi.

L’inizio della battaglia

Con un collega amico troviamo ospitalità in piena zona rossa, a pochi metri dal palazzo ducale, sede ufficiale del G8. La sera prima dell’inaugurazione, giovedì 19 luglio, incontriamo per caso in trattoria il sindaco di Genova, Giuseppe Pericu, a cena con il sindaco di Portoalegre, Tarso Genro, venuto apposta per il corteo del sabato successivo. Il sindaco trova che l’enorme arsenale di misure di sicurezza sia “esagerato e provocatorio”: «Governo e polizia si sono talmente lasciati terrorizzare dai fatti di Göteborg che proprio per questo la probabilità che qui succeda la stessa cosa è alta». Parole profetiche.

La mattina di venerdì 20 luglio, appena fuori dal vuoto surreale del centro cittadino militarizzato, incontro una fauna variegata di attivisti di diversa provenienza. I giornalisti non sono i benvenuti e solo pochi antagonisti sono disposti a spiegare le loro motivazioni. Tre giovani greci (ce ne sono tanti a Genova in quei giorni) inneggiano alla violenza, «perché quegli otto nel loro palazzo sappiano che non potranno restare impuniti per quel che stanno facendo». Due giovani donne turche, vestite di nero sotto una bandiera rossa con il ritratto di Mao Zedong, sostengono che il G8 sia il responsabile della crisi economica turca.

Ma l’azione vera si svolge qualche centinaio di metri più in là, in corso Buenos Aires, a meno di un chilometro dalla zona rossa, dove poco dopo mezzogiorno mi trovo a fare una diretta per la radio olandese Bnr con il telefonino, davanti ad alcune decine di scalmanati, anch’essi in nero e armati di mazze e spranghe, che stanno distruggendo le finestre e il bancomat di una filiale del Credito italiano. I Black bloc mi guardano storto ma mi lasciano fare. Penso di aver fatto bene a venire senza macchina fotografica. Mentre sull’altro lato della strada un’agenzia immobiliare subisce la stessa sorte, un tale spruzza sul muro “Tutte le banche a fuoco” e un altro disegna la nota A nel cerchio rosso. Il piccolo esercito, alcune centinaia di mascherati neri resi irriconoscibili da sciarpe e passamontagna, procede indisturbato, distruggendo e incendiando fino a quando finalmente arriva una reazione. Dalla stazione Brignole avanza con incredibile lentezza una coorte di poliziotti con caschi e maschere antigas, in formazione testudo. Battono ritmicamente i manganelli sugli scudi. Una bella immagine: legionari contro barbari, solo che i barbari non stanno ad aspettarli, ma si disperdono nelle strade laterali per riorganizzarsi. Le forze dell’ordine fanno qualche arresto. Mi rimane impresso un giovane gigante con la faccia insanguinata, presumibilmente francese, che in mezzo al casino non fugge ma continua a cantare a squarciagola la Marsigliese. Inizia quella che poi descriverò come La battaglia tra l’esercito nero e quello blu.

«I danni a noi»

Riutilizzo un frammento del mio resoconto di 20 anni fa: «A un tratto risuonano i botti. L’odore acre dei lacrimogeni si mischia al fumo degli incendi. La truppa nera retrocede ma viene rafforzata da una crescente retroguardia di nuovi arrivati che da dietro una barricata di cassonetti in fiamme bersaglia le linee blu con bottiglie e mattoni. Ben presto dalle strette vie laterali di corso Buenos Aires risalgono le prime colonne di fumo denso e nero. Due auto bruciano, pericolosamente vicine a un condominio. Da una finestra al terzo piano una donna disperata getta secchielli d’acqua sulla carcassa di quello che fino a poco prima era il mezzo di trasporto di suo figlio. “L’abbiamo comprata un mese fa come regalo per la laurea. E non siamo in grado di comprargliene un’altra!”, urla piangendo. Ora la furia distruttrice non ha più limiti. Auto parcheggiate, un distributore di benzina, un salone di automobili, tutto viene devastato. Sotto bandiere rosse e nere sventolanti vengono scolati gli alcolici di un supermercato saccheggiato. Un po’ più in là tre mascherati distruggono tranquillamente le macchine con teutonica metodicità (sento che si scambiano parole in tedesco). Il primo sfonda il finestrino, il secondo getta la benzina, il terzo è pronto con i fiammiferi. E poi avanti la prossima. “Pazzesco! Com’è possibile tutto questo!”, inveisce Annamaria Mangini, abitante della zona, “Ovviamente gli basta proteggere quella gente del G8, mentre lasciano i danni a noi”». Diceva la pura verità.

Piovono proiettili

I disordini continuano ma devo allontanarmi. Dopo un’altra diretta radio chiamo la redazione e chiedo una pagina intera. Me la concedono subito e torno nella zona rossa, dove più tardi apprenderò cos’è successo nel resto della città. Nel frattempo mi telefona un collega italiano con cui ho lavorato in passato. Sa che sono a Genova e mi chiede se, secondo me, è vero che la gestione dell’ordine pubblico ha fatto cilecca. Confermo e lui s’incazza: «Io l’ho scritto, ma il direttore non me lo vuole pubblicare perché secondo lui è meglio non mettersi subito contro il nuovo governo Berlusconi!».

Il giorno successivo, sabato 21 luglio, cammino nel corteo organizzato da tempo dal Genoa Social Forum. Inizia come una marcia sul lungomare, pacifica, allegra, imponente e con una pletora di slogan che rispecchia la variazione multicolore del movimento anti-G8: Abbasso il neoliberalismo, Öcalan libero, People before Profit, Per un’Europa socialista, Genova libera. Posizionato con altri giornalisti e operatori in una punto più in alto con vista sul lungomare, di colpo veniamo colpiti da proiettili (CARTUCCIA CAL 40 MM. A CARICAMENTO LACRIMOGENO AL CS SIMAD-1-01, c’è scritto sul mio souvenir) piovuti dall’alto in mezzo alla folla tranquilla. Uno finisce sulla mia scarpa e un altro a pochi metri di distanza. Non è la prima volta che mi becco un lacrimogeno, fa parte dei rischi del mestiere, ma mai così vicino (e spero che non mi accada mai più). Insieme ad altri malcapitati, con occhi e naso che bruciano e la vista annebbiata dalle lacrime, in qualche modo arrivo nell’androne di un palazzo dove un signore gentile ci fa lavare la faccia.

Mascherarsi coi colori

Per me è la fine del corteo. Giro per la città, ammutolito dalla distruzione di corso Marconi, sul lungomare di fronte alla fiera di Genova. In via Caffa, vicino a piazza Alimonda, dove il giorno prima è stato ucciso Carlo Giuliani, incontro Elena Cavallo, che abita nella strada. Secondo lei la caccia della polizia ai Black bloc non è stata una cosa seria: «Sotto casa nostra si rifornivano di bastoni e sassi nascosti nei cassonetti. E dopo gli scontri si sono resi irriconoscibili togliendosi le sciarpe e mettendo delle camicie colorate sopra i loro vestiti neri». Più tardi vedo gli effetti di quell’operazione camaleontica. Poco prima di sera incontro un gruppo di giovani tedeschi che, in tutta tranquillità, si allontanano dal campo di battaglia. «È stato bello, ma ora dobbiamo essere prudenti (jetzt müssen wir vorsichtig sein)», dice quello che sembra il capo. Porta una giacca a quadri sopra la sua tenuta tutta nera. A quanto pare, sigillare i tombini non è stato sufficiente.

Proteggere la zona rossa

Il 22 luglio, domenica mattina, intervisto una coppia di attivisti olandesi che si trovava nella scuola Diaz durante il famigerato pestaggio della notte. Per loro fortuna sono rimasti illesi, però sono furibondi e sfogano la loro rabbia davanti a un connazionale giornalista. Più tardi mi reco alla stazione Brignole dove è in partenza una parte dei manifestanti. Questa volta l’impiego delle forze dell’ordine è massiccio. Centinaia di uomini armati, con i blindati e le volanti, circondano la piazza davanti alla stazione. I passeggeri vengono attentamente scrutati e fotografati. Perché solo ora, dopo due giorni in cui il Black bloc è stato lasciato libero di agire come voleva? «Ce lo siamo chiesti anche noi», mi dice un funzionario di polizia con cui mi metto a parlare e che, per ovvi motivi, mi chiede di restare anonimo, «ma i nostri ordini erano di proteggere la zona rossa e solo la zona rossa. Così stavamo lì dentro con 18mila uomini, e quasi nessuno fuori». Mi chiedo che cosa significhi. Era abbastanza prevedibile che quel manipolo di estremisti, nichilisti e casseurs in cerca di rogne non si sarebbe limitato a un impossibile attacco alla zona rossa. Perché allora lasciare il resto della città indifesa? Non ci hanno pensato? Il rischio è stato sottovalutato? Oppure il governo di destra appena insediato li ha lasciati fare, per screditare l’intero movimento no global e preparare la popolazione alle maniere forti? Dopo 20 anni ancora non lo so.

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