C’è una cosa che i capi di stato e di governo dei 27 paesi membri dell’Ue precisano con insistenza nelle conclusioni del loro incontro cominciato il 17 luglio e concluso (dopo ben cinque giorni di trattative) con un accordo per la ripresa comune: a “situazione eccezionale” corrisponde “risposta eccezionale”. E per eccezionale si intende: “Limitata nella durata, nell’entità, nel raggio di azione”. Debito comune sì, maper un tempo limitato, con risorse circoscritte, da usare in un certo modo. Perciò ha valore politico l’appunto fatto il 1 settembre dal commissario all’Economia Paolo Gentiloni in audizione alle commissioni parlamentari nostrane: «C’è chi insiste perché queste misure siano una tantum e allora questa evoluzione del progetto europeo per avere futuro deve avere successo». Per esempio, deve funzionare il sistema di risorse proprie (tasse comuni) per ripagare il debito. Bisogna tenere il passo, il ritmo. Ma il percorso è ancora agli inizi: ecco cosa succede ora.

La tabella di marcia per l’Italia. Il piano nazionale “per la ripresa e la resilienza” di ciascun paese, nella sua versione ufficiale, deve arrivare sui tavoli di Bruxelles idealmente a gennaio 2021, e comunque entro aprile. Ma la Commissione (e Gentiloni) “incoraggia” a presentare una bozza e quindi ad avviare una interlocuzione già a metà ottobre. Questa versione spuria del piano nazionale, che per l’Italia ha un volume di 209 miliardi, per “avere successo e quindi futuro” deve tenere conto di una lista di priorità che l’Ue ha individuato come cardini della “nuova generazione”: sostenibilità ambientale, innovazione e digitale, capacità di resistere agli shock (“resilienza”) e quindi sostenibilità sociale delle proposte. C’è poi un altro elemento che concorre alla buona accoglienza della bozza: la sua capacità di rispondere alle raccomandazioni che l’Ue ha fatto avere all’Italia negli ultimi due anni. Riforma di giustizia, pensioni, pubblica amministrazione, per citarne qualcuna. Una volta avviato il dialogo informale con la Commissione, avviene poi (da gennaio) la presentazione formale del piano. A quel punto i commissari hanno fino a due mesi per proporne al Consiglio l’approvazione; capi di stato e di governo hanno a loro volta un mese per dare semaforo verde a maggioranza qualificata. Passano quindi fino a tre mesi prima del via libera definitivo, poi il paese ottiene una prima erogazione che corrisponde al dieci per cento dell’ammontare complessivo del suo piano di ripresa; il resto viene distribuito a scadenza semestrale. Bisogna aspettare almeno la prossima primavera per vedere un po’ di quattrini? In realtà sarà già possibile ricorrere ad altri strumenti più limitati. Il 24 agosto la Commissione ha fatto una proposta al Consiglio per un prestito da circa 27 miliardi a favore dell’Italia con “Sure”(sostegno a schemi già esistenti nei singoli paesi, da noi la cassa integrazione, contro la disoccupazione); c’è React-Eu (fondi per la coesione). E c’è il meccanismo europeo di stabilità (Mes), sul quale Gentiloni ribadisce che “non ci sono condizionalità”. 

I tempi (e gli ostacoli) a livello europeo. Ma il calendario ideale dell’Italia si inserisce dentro una agenda più ampia di respiro europeo. E lì le sorprese non sono finite. Anzitutto, perché la Commissione possa raccogliere risorse sui mercati è necessario il via libera, anche dei singoli parlamenti nazionali, sull’aumento del tetto delle cosiddette “risorse proprie”. Il voto delle assemblee nazionali è un giro di boa per il piano. E di quali risorse si parla? Il Consiglio europeo ha calendarizzato con immediatezza la tassa sulla plastica ma la commissione bilancio dell’europarlamento riunitasi proprio questo 1 settembre (e che ora passa il dossier alla plenaria) punta a un’agenda più precisa e ampia: tassa sulla plastica a gennaio, certo, ma pure tassa sulle emissioni nel 2021, quella per la regolazione del carbonio e tassa sul digitale nel 2023, l’imposta sulle transazioni finanziarie nel 2024, e nel 2026 la base imponibile comune per l’imposta sulle società. L’Europarlamento punta più in alto dei governi, che all’ultimo Consiglio hanno dovuto accordarsi all’unanimità sacrificando così alcuni programmi squisitamente europei come la ricerca di Horizon, Erasmus+, ambiente, salute, digitale. Su questi programmi, e in generale sul piano finanziario settennale (mff), il parlamento ha potere di veto e prima negozia con le altre istituzioni. Questo mese – il 7, l’11 e il 18 –  ci sono i primi “triloghi”. C’è un punto su cui l’europarlamento insiste a differenza dei governi con la loro real politik: è la “rule of law”, il rispetto dello stato di diritto. Nell’accordo trovato a luglio in Consiglio il punto è formulato in modo vago e viene rinviato alla Commissione. Ma la Commissione aveva già delineato due anni fa un piano: per avere i soldi Ue bisogna garantire il rispetto dello stato di diritto; il consesso dei governi, se ha obiezioni, deve esprimerle a maggioranza qualificata (“reverse qualified majority”). Non come finora, con l’Ungheria che è riuscita a ostacolare qualsiasi azione incisiva, e che tuttora minaccia di bloccare il piano nel suo parlamento nazionale se si insiste troppo sui diritti. Il 26 agosto popolari, socialdemocratici, verdi e renew hanno scritto in blocco ad Angela Merkel e a Ursula von der Leyen: rivendicano il ruolo dell’unica assemblea elettiva dell’Unione e il rispetto dei valori comuni.

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