Li hanno chiamati eroi durante la prima ondata. Accusati di guidare ambulanze vuote nella seconda. Sono i soccorritori e gli operatori sanitari in prima linea contro il Covid. Per alcuni di loro più che un lavoro è una vocazione, un dovere fatto con impegno da mesi, a ritmi serrati e senza sosta.

Aalla Croce Verde di Milano, assistenza pubblica cittadina che opera dal 1899, il servizio va avanti grazie ai volontari. Ragazzi giovanissimi che tra un esame all’università o il lavoro trovano il tempo per fare il turno.

Qui la sera sembra non finire mai. Nel silenzio di una città in cui è calato il coprifuoco, ma si è alzato il picco dei contagi, il rumore delle ambulanze sembra ancora più forte. I volontari aspettano in sede che arrivi la chiamata. Ci sono momenti in cui l’attesa è da riempire. E momenti in cui le chiamate sono una dietro l’altra.

Emergenze costanti

Si tratta soprattutto di chiamate Covid. Non sanno quantificarne la proporzione, e in fondo non è compito loro. Per loro il protocollo è diventato un rituale. Si vestono e sfrecciano verso l’emergenza. A volte c’è anche spazio per strappare un sorriso. «E’ un’emergenza?» Chiede uno di loro al volontario che sta andando verso l’intervento. «E’ sempre un’emergenza», ribatte pronto il collega. «Non sempre», replica, accennando un sorriso, «ieri notte alle 4 un uomo ci ha chiamati per il mal di schiena, gli abbiamo chiesto: “Da quanto ce l’ha e ha risposto: ‘Da 20 anni’».

Quello che emerge dai loro racconti è la capacità di bilanciare giusto distacco ed empatia: «Si cerca sempre di essere umani durante l’intervento - racconta Marica - ma con i DPI a stento riescono a guardarci in faccia, con il Covid è diventato tutto più difficile». Sono formati per farlo, ma in questi mesi la pressione, la fatica e il carico emotivo si fanno sentire. Per questo c’è chi ha usufruito del supporto psicologico per andare avanti. Andare avanti, anche per la squadra. Tra di loro, raccontano, c’è anche una forte appartenenza. Se molla uno, molla anche l’altro. Per questo, dicono, ci si fa forza insieme. Anche questo, ora, non è facile. Manca quella condivisione che normalmente fa da contrappeso a fatica e dolore per certi interventi più difficili degli altri. Parlando, cucinando e cenando insieme, prendendo una birra dopo il turno. Tutte cose che ora sono proibite, non possono fare vita comunitaria all’interno della sede e devono portare la mascherina anche quando dormono.

Prima linea

In numero ridotto per via dei protocolli sanitari, sono stati tra i primi a confrontarsi con i malati di Coronavirus, a entrare nelle loro case, assistere spesso alle lacrime di chi disorientato, tra i pazienti e i familiari, non sa come andrà a finire, che ne sarà di quel distacco. Con la seconda ondata la pressione sugli ospedali è tornata a crescere, ma se prima erano loro ad aiutare gli altri soccorritori, ora che Milano è una delle città più colpite le cose sono cambiate. Check-point per smistare i codici verdi, i pronto soccorso pieni, i reparti sotto pressione.

La fotografia del soccorso racconta un’altra emergenza qui a Milano. «Spesso si dimentica che siamo persone. C’è molto impegno dietro che magari non viene riconosciuto perché il Covid si è ridotto a dei numeri», dice Marica. Sebastiano Mattarelli ha iniziato a 18 anni. Vedeva il fratello e la sorella in Croce Verde e da lì ha maturato la voglia di farne parte anche lui. «Lo davo come servizio scontato», racconta.

Oggi Sebastiano è comandante. Quando parla di questi mesi, lui come tutti i suoi colleghi, quel che salta all’occhio è il contrasto tra la normalità con cui lo racconta e quel che racconta. Normalità nella paura. Normalità nello sforzo. Loro, l’etichetta di eroi, in fondo, non se la sono mai sentita addosso. Ma con la stessa pacatezza rifiutano con decisione l’idea che si possa arrivare a negare o attaccare un servizio essenziale come questo. Senza rabbia, senza critiche, Marina, dai suoi 21 anni, dà una lezione a tutti: «Paura di quel che non si conosce, è un meccanismo umano».

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