Diecimila euro che passano di mano, con un mossa rapida, dentro un ascensore, al riparo da occhi indiscreti e da eventuali telecamere. I protagonisti di questa storia non sono gangster di strada, ma colletti bianchi corrotti.

Dentro l’ascensore ci sono un giudice, un commercialista e un medico in pensione. Il loro arresto ha travolto l’amministrazione della giustizia calabrese. Il trio però, come raccontano i testimoni, è solo l’apice di un sistema. «Una congrega nella massoneria che incorpava avvocati, medici e qualche giudice», racconta un boss della ’ndrangheta pentito che ha pagato per essere scarcerato.

Un mercato delle sentenze e degli incarichi, svelano avvocati e commercialisti nei verbali inediti che Domani è in grado di rivelare. Un sistema che si basa su un doppio binario: sul primo corrono le trattative per le sentenze, sul secondo l’accordo tra i legali di indagati o imputati, anche sospettati di mafia, giudici e professionisti che ottengono perizie sui beni sequestrati sulla base delle leggi anti cosche.

Un meccanismo corruttivo ricostruito nell’inchiesta della procura di Salerno diretta da Giuseppe Borrelli che ha portato prima all’arresto e poi alla condanna in primo grado di Marco Petrini, ex presidente della seconda sezione della corte d’appello di Catanzaro e a capo della commissione tributaria del circondario.

L’accusa del procuratore aggiunto Luca Masini, che lo ha portato a processo, era di corruzione in atti giudiziari. L’inchiesta era stata ribattezzata dalla Guardia di finanza con il nome “Genesi”. Dalla storia di Petrini che intascava mazzette e aggiustava sentenze anche di personaggi legati alle famiglie della ‘ndrangheta locale sono nati diversi filoni di indagine, tutti ancora in corso. Rivoli confluiti tutti a Salerno dove c’è la procura che si occupa dei procedimenti penali e delle segnalazioni sulle toghe degli uffici giudiziari di Catanzaro.

Il caso Petrini è per l’appunto la genesi, l’inizio, l’argine visibile di un fiume sotterraneo fatto di favori, amicizie, clientele e corruzioni tra avvocati, commercialisti e giudici. Da quanto risulta sarebbero almeno cinque i fascicoli di indagine aperti frutto di due diverse inchieste, quella che ha scoperto il giro di corruzione gestito da Petrini e l’altra, che ha portato a centinaia di arresti, su mafia e politica. Alla procura di Salerno il compito di ricostruire «il sistema».

I protagonisti

Alcuni protagonisti coinvolti nel filone Petrini hanno deciso di parlare. E rivolgono accuse pesanti nei confronti di alcuni giudici calabresi che ricoprono ruoli cruciali: parliamo di giudici della Corte d’appello e di presidenti di sezione del tribunale di Catanzaro, il distretto giudiziario del capoluogo di regione e il più esteso per numeri, territori e competenza.

Tra questi c’è l’avvocato Franceso Saraco, accusato di aver pagato il giudice Petrini con l’obiettivo di salvare il padre da una dura condanna in secondo grado e ottenere la restituzione dei beni sequestrati dall’antimafia nell’inchiesta su una cosca della provincia di Catanzaro. Una mazzetta da 150mila euro divisa in più tranche per risolvere la questione familiare. Saraco è stato condannato a un anno e otto mesi.

Ai magistrati ha ammesso di essere un corruttore ma allo stesso tempo si è anche definito vittima di un sistema gestito da avvocati, commercialisti e alcuni giudici di Catanzaro. Il sistema a monte che gli inquirenti stanno cercando di esplorare, partendo dalle dichiarazioni di Saraco, di Emilio Santoro, ex dirigente dell’Azienda sanitaria provinciale di Cosenza, e da fascicoli in passato archiviati che oggi assumono rilevanza alla luce delle ammissioni di alcuni protagonisti.

Il giudice e l’avvocato

Sia Santoro che Saraco hanno parlato di un importante giudice di Catanzaro e di un «potente» avvocato. Il primo è Giuseppe Valea, presidente del tribunale del riesame, l’ufficio cioè che ha il potere di scarcerare indagati colpiti da misure cautelari e dissequestrare i beni.

Il secondo, il «potente legale», è Salvatore Staiano del foro di Catanzaro, a inizio anno rinviato a giudizio per una storiaccia di perizie fasulle per favorire un boss poi pentito della ’ndrangheta. Una coppia sul quale si sono concentrati i magistrati di Salerno, soprattutto perché nei verbali dei protagonisti della vicenda Petrini i loro nomi ricorrono spesso. «In particolare Staiano, stando a quanto riferitomi da Claudio Antonio Schiavone (il commercialista pure lui al centro del giro di corruzione con Petrini), aveva ottimi rapporti con Valea (Giuseppe ndr), avendo anche ricevuto dallo stesso diversi incarichi...Sono a conoscenza che Staiano era stato difensore del Valea in un procedimento che aveva avuto a Salerno».

Procedimento poi concluso con un’assoluzione, confermano fonti giudiziarie a Domani. L’avvocato Saraco, nell’interrogatorio di giugno scorso ha precisato: «Nell’anno 2018 Schiavone mi riferì che, grazie a Staiano, aveva ricevuto incarichi da Valea. Si trattava di un’azienda “in odore” di ’ndrangheta. Questa azienda, se non ricordo male, si trovava a Lamezia Terme e si occupava di onoranze funebri...Non so riferire se, in cambio delle nomine di Schiavone, Valea percepisse soldi o altra utilità».

Saraco aggiunge anche nuovi dettagli su una sentenza del riesame che ha stabilito il dissequestro dei beni del gruppo imprenditoriale Perri, noti imprenditori locali proprietari di centri commerciali, sospettati in passato di legami con i clan.

Tra gli avvocati che hanno gestito il caso c’è Staiano, «in ottimi rapporti» con il presidente del tribunale del riesame. Saraco ricostruisce nei dettagli la vicenda Perri anche sulla base delle confidenze ricevute dal commercialista Schiavone, «nominato consulente» e di cui «i clienti conoscevano le sue importanti relazioni anche con magistrati».

Insomma il solito giro, sostiene Saraco, che spiega: «Tornando alla vicenda Perri...Schiavone mi disse che l’avvocato era riuscito a corrompere il giudice...mi disse a chiare lettere che l’esito era stato favorevole in ragione dell’accordo corruttivo, e che il Perri aveva pagato il giudice». Qui non è chiaro se il riferimento è ancora a Valea o a qualche altra toga, forse di grado superiore, per esempio della Cassazione. Al momento su quei nomi c’è un omissis.

Una delle ultime sentenze firmate da Valea risale al 4 dicembre scorso. Il presidente del riesame ha concesso i domiciliari per incompatibilità causa Covid-19 a Nicolino Gioffrè, fino ad allora detenuto a Napoli, condannato in primo grado a 13 anni per essere il referente di una potente cosca. Il difensore di Gioffrè è Staiano.

Pochi giorni prima aveva fatto discutere un’altra decisione di Valea che ha permesso di lasciare il carcere ad Antonio Pontoriero, una settimana dopo la condanna in primo grado a 22 anni per l’omicidio di Soumalia Sacko, il bracciante ucciso a colpi di fucile il 2 giugno del 2018 nelle campagne della piana di Gioia Tauro. Pure Pontoriero si è affidato alla difesa di Staiano.

Dice il boss pentito Mantella, che ha confessato di aver pagato Staiano per una scarcerazione: «L’avvocato mi diceva che aveva bisogno di ungere...di ungere qualcosa». Contattato da Domani, Staiano dice: «Non commento e laddove dovessi avere un danno da quello che sta accandendo eserciterò ogni azione legale consentita». Staiano però conferma di conoscere Schiavone da molti anni, «ha lavorato per me tantissimi anni».

Il caso Citrigno

Nei verbali letti da Domani risulta che i magistrati di Salerno siano interessati anche a un secondo dissequestro di cui ha beneficiato un altro gruppo imprenditoriale, i Citrigno: editori e ras delle cliniche private, il capostipite Pietro è stato condannato in via definitiva per usura. «Sempre da Schiavone ho appreso che erano state date somme da detto indagato (Citrigno ndr) affinché corrompesse».

Corruzione, aggiunge, che sarebbe andata a buon fine. L’accusa dopo la sentenza aveva chiesto il sequestro del patrimonio societario. I Citrigno si sono affidati a un pool di legali, tra questi troviamo Staiano e tra i consulenti il solito Schiavone. Scelta azzeccata perché alla fine la suprema corte gli ha dato ragione. Prima ancora era stata la Corte d’appello di Catanzaro a convidere le tesi difensive.

Il presidente che ha firmato la sentenza è Giancarlo Bianchi, prosciolto in passato dal Csm che lo doveva giudicare per alcuni rapporti emersi in un’indagine antimafia della procura di Catanzaro. In quell’inchiesta si trovano le tracce dei buoni rapporti tra Bianchi e un avvocato sotto processo per complicità con le cosche, difeso sempre da Staiano: Giancarlo Pittelli. «Non siamo a Milano, a Catanzaro ci conosciamo tutti», risponde Staiano.

A Catanzaro esisteva «un sistema generale di corruzione di magistrati che vedeva come cardini due avvocati...in tale sistema il ruolo essenziale veniva svolto dai consulenti, periti, amministratori i quali venivano nominati su indicazione degli indicati avvocati».

L’ex parlamentare massone

Tra i legali citati da Saraco c’è anche Pittelli, il potente berlusconiano, ex parlamentare di Forza Italia e già assessore regionale, massone del Grande oriente d’Italia. «La massoneria ti apre autostrade mondiali», spiegava Pittelli intercettato, che secondo il collaboratore di giustizia Andrea Mantella «aveva entrature nel tribunale di Catanzaro, era una potenza perché era un massone».

Pittelli è imputato di concorso esterno alla mafia, il processo con rito abbreviato inizierà il 13 gennaio. Era stato arrestato nella maxi inchiesta sul clan Mancuso con centinaia di arresti del 19 dicembre 2019 firmata dalla procura antimafia di Catanzaro. Le cimici del Ros avevano registrato una cena nella sua abitazione con magistrati e altri professionisti. Una serata conviviale finita in informative senza ipotesi di reato inviate alla procura di Salerno competente sui magistrati catanzaresi.

Funziona così il “sistema Catanzaro”, amicizie, favori, mazzette e sentenze comprate, dicono i pentiti e i testimoni. Una «congrega», appunto per usare le parole di Mantella, l’ex della ’ndrangheta.

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