Su Domani arriva il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra.

Ripercorrere alcune delle vicende narrate da Mario Francese, nella sua efficace ed appassionata attività professionale, significa operare una sintesi ragionata dei più significativi aspetti della storia di "Cosa Nostra" tra gli anni ’60 e gli anni ’70. Nei suoi articoli venivano esaminate con particolare ampiezza le attività criminali di quelli che sarebbero divenuti i maggiori esponenti dello schieramento “corleonese”, destinato in seguito a divenire protagonista della strategia terroristico-eversiva manifestatasi sul finire degli anni ’70; venivano poste in luce le fitte relazioni tra gli ambienti mafiosi e il mondo dell’economia e degli appalti pubblici nella Sicilia Occidentale; venivano attentamente ricercate le causali e le responsabilità dei più gravi episodi delittuosi posti in essere dall’illecito sodalizio; veniva espressa l’insoddisfazione per le vistose difficoltà incontrate dall’autorità giudiziaria nel colpire i reati commessi nell’ambito di una struttura criminale che appariva, in quel periodo, largamente impenetrabile alle indagini processuali, a causa della carenza di collaboratori di giustizia.

I due articoli del 13 giugno 1969

Le perplessità di magistrati ed investigatori per la sentenza emessa nel giugno 1969 dalla Corte di Assise di Bari, con la quale erano stati assolti soggetti legati alla mafia di Corleone, furono esposte da Mario Francese nel seguente articolo pubblicato il 13 giugno 1969:

“E' una sentenza che lascia perplessi”

Questo il commento scheletrico dei magistrati che hanno condotto le maggiori indagini anti-mafia

«Rispettiamo la sentenza, perché tutte le sentenze vanno rispettate: sono emanate da giudici della Repubblica, giudici qualificati e sereni. D'altra parte finora conosciamo solo il dispositivo della sentenza e non la sua motivazione»: chi dice queste parole è il dottor Giuseppe La Barbera, il requirente dei tre procedimenti istruttori a carico delle cosche mafiose di Corleone, oggi alla Procura della Repubblica presso il tribunale dei minorenni di Palermo. «Comunque anche la sola lettura del dispositivo ci fa restare molto perplessi. Dopo tanto lavoro, dopo che finalmente i corleonesi avevano trovato un po' di pace e avevano dimenticato tanti lutti e tante rovine, ora torneranno a vivere di nuovo nel dubbio del domani».

«Preferisco non fare nessun commento», dice Cesare Terranova, il giudice istruttore famoso per le sue istruttorie contro la mafia. « Condivido però l'opinione espressa al giornale «L'Ora» dal vicequestore Angelo Mangano: ora aspettiamo che diano una medaglia alla « vittima» di persecuzioni giudiziarie Luciano Liggio. L'intervista che ha rilasciato ieri al «Giornale di Sicilia» è infatti da vittima: ma a nessuna persona di buon senso può essere sfuggito il significato palese di certe dichiarazioni...».

Al Palazzo di Giustizia di Palermo, ieri, la sentenza di Bari era il grande argomento del giorno, superando anche quello che riguarda lo sciopero dei cancellieri. «Non possono essere mandati fuori dalla Sicilia certi processi» - è di nuovo La Barbera che parla - «perché il giudice naturale conosce uomini, cose, ambiente. A lui basta una semplice inflessione della voce per cogliere un indizio di responsabilità o un più semplice sospetto».

Nello stesso giorno, fu pubblicato sul “Giornale di Sicilia” un altro articolo (di seguito riportato), nel quale Mario Francese, con riferimento alla proposta di confino avanzata nei confronti di Salvatore Bagarella, sottolineava come la magistratura palermitana non si fosse lasciata influenzare dalla pronunzia assolutoria emessa a Bari, ed esponeva le tesi della pubblica accusa in ordine alla statura criminale di esponenti mafiosi come Calogero Bagarella (fratello di Leoluca Bagarella), Luciano Liggio, Bernardo Provenzano:

“Proposto il confino per il corleonese Salvatore Bagarella: il figlio Calogero è stato prosciolto assieme a Luciano Liggio”

“A Bari sono innocenti. A Palermo colpevoli...”

«Mi accusano di avere aiutato dei banditi latitanti. Ma se li hanno assolti vuol dire che sono persone perbene ed ho aiutato persone per bene...»

Innocenti a Bari, colpevoli a Palermo... Non sembra che la sentenza barese abbia influenzato i giudici palermitani, tanto è vero che oggi un corleonese, legato da vincoli di parentela al gruppo di Liggio, è stato proposto per l'invio al soggiorno obbligato. E' Salvatore Bagarella, 63 anni, padre di Calogero Bagarella assolto a Bari insieme a Luciano Liggio nonostante che il pubblico ministero l'avesse definito come uno tra i più sanguinari luogotenenti dell'ex «primula» di Corleone. Un contadinotto dimesso nella salute e nei panni ma dallo sguardo penetrante, Salvatore Bagarella, era stato arrestato per custodia precauzionale su ordine del Tribunale di Palermo il 16 maggio scorso allorché all'Assise di Bari, il pubblico ministero aveva chiesto tre ergastoli per suo figlio Calogero, per Liggio e per Bernardo Provenzano. Ieri, il vecchio corleonese è stato giudicato tra i primi in camera di consiglio. Abbiamo avuto appena il tempo di chiedergli se suo figlio - da circa vent'anni latitante - si era deciso a lasciare il suo nascondiglio. «Non so nulla - ci ha dichiarato Salvatore Bagarella - perché sono stato arrestato un mese fa. Ho sentito dire ieri e stamane all'Ucciardone che si fa un gran parlare della sentenza di Bari. Qualcuno mi ha anche abbracciato dicendomi che mio figlio era stato assolto da tutti i reati. Io non so s'è vero o no. Non so né leggere né scrivere. Magari fosse così. Calogero ha moglie e figli. Non si è mai allontanato durante la latitanza dal corleonese. Non è vero che per un certo periodo sia emigrato clandestinamente in America».

- Dove è stato nascosto suo figlio per tanti anni?

«Non so nulla. Non lo vedo da anni. Non voglio sapere nulla. Piuttosto: se è vero quello che mi hanno detto, mio figlio potrà tornare a casa. E se è veramente tutto vero, perché non mandano a casa pure me? Che cosa ho fatto? Se dicono che la mafia non c'è a Corleone, come posso essere mafioso? Sono qui perché mi accusano di avere aiutato mio figlio ed altri latitanti, amici di Luciano Liggio, accusati di tanti delitti. Ma se sono innocenti loro, io non avrei aiutato banditi ma persone per bene, veri e propri galantuomini».

Il presidente La Ferlita fa chiamare Bagarella. Il brigadiere Tommaso Tusa scorta il vecchio corleonese fino alla camera di consiglio. Fuori giunge l'eco dell'arringa di un avvocato: «Ma che mafiosi! La sentenza di Bari parla chiaro. Il figlio di questo disgraziato, Calogero, è un galantuomo perseguitato dalla giustizia è costretto a stare per molti anni latitante. A Bari hanno fatto giustizia al figlio: qui fate giustizia al padre restituendolo alla sua famiglia e, soprattutto, al suo Calogero che non vede da molti anni».

Ben diverso l'intervento del pubblico ministero Aldo Rizzo. Il requirente, press'a poco, ha sostenuto che ogni giudice è libero nei suoi giudizi. A Bari, insomma con tutto il rispetto che si può avere per giudici qualificati, hanno valutato il fenomeno mafioso di Corleone in modo diverso da come tale fenomeno avrebbe potuto essere valutato dal giudice naturale. Per noi, avrebbe detto il dottor Rizzo, la catena spaventosa di delitti che ha insanguinato per anni il territorio di Corleone depone per l'esistenza attiva di cosche mafiose organizzate, di cui Salvatore Bagarella fa parte, se non altro, per solidarietà al proprio figlio e ad altri parenti coinvolti in delitti. Il pubblico ministero ha concluso il suo intervento chiedendo per Salvatore Bagarella la sorveglianza speciale per tre anni, con l'obbligo del soggiorno in un comune lontano dalla Sicilia.

Il tribunale si è riservata la decisione, che verrà depositata nei prossimi giorni.

Giungeva intanto a Bagarella padre, mentre veniva ricondotto all'Ucciardone, la notizia che suo figlio, vivo e sano, aveva lasciato il suo nascondiglio per partire alla volta di Bari, al fine di incontrarsi con Luciano Liggio. Ma l'assoluzione di Bari basta da sola ad impedire alle forze di polizia di arrestare Calogero Bagarella? E' noto che, sin dal febbraio 1966, il ministero dell'Interno, con proprio provvedimento, su istanza del comando dei carabinieri di Palermo, dispose la taglia di due milioni per l'inafferrabile Calogero Bagarella. Altra taglia di due milioni a testa, con lo stesso decreto, fu disposta nei confronti di Bernardo Provenzano e di Giuseppe Ruffino. Quest'ultimo lo scorso anno fu trovato morto nei pressi di un casolare, quindi per lui il problema non si pone. Per gli altri, si. Soltanto un altro decreto dello stesso ministero dell'Interno potrà annullare il primo che, essendo tuttora valido, potrebbe costare l'arresto dell'«ex» luogotenente di Liggio.

Il soggiorno obbligato del “Corto” di Corleone

In un successivo articolo, pubblicato sul "Giornale di Sicilia" del 6 luglio 1969, e di seguito trascritto, Mario Francese, soffermandosi sulla proposta di soggiorno obbligato avanzata nei confronti di Salvatore Riina, ne narrava con ricchezza di dettagli la carriera criminale, posta in rilievo dalla pubblica accusa nel procedimento di prevenzione:

Il corleonese assolto a Bari dall'accusa di triplice omicidio fu arrestato nella sua abitazione la sera dell'arrivo dalle Puglie.

Riina al confino?

Il P.M. ha chiesto ai giudici del Tribunale d'inviarlo al soggiorno obbligato per la durata di quattro anni - La decisione fra pochi giorni.

Salvatore Riina, 39 anni, uno dei corleonesi scarcerati dopo la clamorosa sentenza di Bari, è comparso ieri dinanzi alla sezione speciale per le misure di prevenzione del tribunale (presidente il consigliere La Ferita) in quanto proposto al soggiorno obbligato. Era stato arrestato nella sua abitazione corleonese la stessa sera in cui vi giunse insieme ad uno dei suoi difensori baresi, l'avv. Mitolo, in esecuzione di ordine di carcerazione preventiva del presidente del tribunale.

Assolto con formula piena dal concorso nel triplice omicidio di contrada Pirrello del 12 settembre 1963, in danno di Francesco Paolo Streva, Biagio Pumilia e Antonino Piraino, e per insufficienza di prove dall'associazione a delinquere, Riina, così come Luciano Liggio, subito dopo la scarcerazione, si trasferì da Bari a Bitonto, residenza dell'avv. Donato Mitolo. Qui, sia Liggio che Riina furono invitati dalla locale questura a lasciare quella provincia in quanto ritenuti «elementi socialmente pericolosi». Nello stesso tempo, i due venivano raggiunti da un provvedimento della questura di Palermo che li invitava a presentarsi al commissariato di Corleone.

Luciano Liggio, che la sentenza di Bari aveva alquanto rinfrancato nel morale e, anche nel fisico, tornò ad ammalarsi e quindi, piuttosto che rientrare a Corleone, preferì farsi ricevere in ospedale. Totò Riina, suo malgrado, non poté sottrarsi all'ordine: la sera del 20 giugno, appena giunto nella sua abitazione, dove l'attendeva una folla di amici e una tavola imbandita di tutto punto (ospite di riguardo l'avv. Mitolo), ebbe notificato un ordine di carcerazione, in quanto proposto per il soggiorno obbligato. La «cena del ritorno» andò a carte quarantotto.

Ieri in camera di consiglio, la discussione della proposta di soggiorno obbligato. Riina è stato assistito dall'avv. Giuseppe Savagnone il quale, attingendo a piene mani nel dispositivo della sentenza di Bari (la motivazione della sentenza non è stata ancora depositata), si è battuto per eliminare il giudizio di « pericolosità sociale» espresso dalla questura. Di ben altro avviso, il debuttante pubblico ministero dottor Aliquò si è servito della «fedina» penale non solo per condividere il giudizio sulla pericolosità sociale del soggetto ma per chiarire la personalità di Riina che, a suo avviso, ha tutte le carte in regola per essere considerato un affiliato alla mafia di Corleone. Il requirente, tra l'altro, ha sottolineato che Riina, a parte la descrizione che di lui ne fece nella sentenza di rinvio a giudizio il giudice Cesare Terranova, si presenta per i suoi precedenti: nell'immediato dopoguerra fu condannato a dodici anni di reclusione per omicidio preterintenzionale, in danno di Di Matteo, e per rissa. Un delitto per futili motivi: i due giocavano a bocce e, quando non si trovarono d'accordo sul punteggio, diedero piglio alle armi. Sparò Di Matteo e ferì ad una coscia Riina: sparò anche don «Totò» e non sbagliò il bersaglio. Ancora il 4 dicembre 1958, Totò Riina fu coinvolto nell'omicidio di Carmelo Lo Bue, fratello di uno dei più rispettabili capimafia di Corleone dell'unico capomafia, anzi, che sia morto di vecchiaia. In istruttoria, comunque riuscì a cavarsela.

A conclusione della sua requisitoria, il dottor Aliquò ha chiesto l'invio di Totò Riina al soggiorno obbligato per la durata di quattro anni. La decisione, che spetterà al tribunale, verrà depositata nei prossimi giorni.

La sentenza in questione è quella della Corte di Assise di Palermo, presidente Leonardo Guarnotta, contro Salvatore Riina +9

© Riproduzione riservata