Da giorni circola nel dibattito romano il video di una famiglia di cinghiali che sottrae la spesa a una donna nel parcheggio di un supermercato a Formello. È diventato il nuovo manifesto del degrado capitolino, ma in realtà è una storia più complessa di così. Se proprio deve essere manifesto di qualcosa, quel video è emblema del distorto rapporto dell’Italia con le risorse naturali e gli animali selvatici.

Una specie che è esplosa

Quella dei cinghiali è la storia di una specie che fino agli anni Cinquanta era in equilibrio e che poi è esplosa, all’inizio quasi invisibile, limitata a poche aree di macchia. In pochi decenni la popolazione è esplosa, fino a diventare un caso nazionale, sociale ed economico più che ecologico. Nell’Italia del boom era difficile vedere un cinghiale nel corso di una vita intera, anche per chi viveva in campagna. Oggi è comune attraversare la periferie di molte città italiane e avvistare una famiglia in cerca di cibo.

«Quella del video è una femmina giovane e affamata. I cinghiali arrivano in città perché cercano un luogo sicuro dalla pressione della caccia. Più la liberalizziamo e più verranno verso le zone urbane. Sono animali intelligenti, sanno sopravvivere a tutto e hanno capito che così corrono meno rischi. Solo che sono anche fuori dal loro ambiente, spaesati, senza riferimenti, non sanno come procurarsi cibo e hanno due opzioni, la spazzatura e scene come quella del video», spiega Andrea Mazzatenta, docente di psicobiologia e psicologia animale all’università di Teramo. È un circolo vizioso, l’emergenza viene affrontata tenendo la caccia nelle sue varie forme aperta quasi tutto l’anno, ma quella che dovrebbe essere una soluzione finisce per amplificare il problema. «Sono trent’anni che mi occupo di cinghiali e sono trent’anni che si parla di emergenza cinghiali, ma è stata solo un chiavistello per allargare le maglie della caccia e portarla fin dentro i parchi nazionali», spiega Franco Ferroni, responsabile biodiversità del Wwf.

Bandiera politica

Il mondo della caccia oggi usa il cinghiale come argomento di posizionamento sociale e politico («Come fareste senza di noi con tutti questi cinghiali?») quando storicamente è stata la principale causa di questa situazione. Negli anni Cinquanta i cacciatori hanno immesso in massa cinghiali dall’est Europa: più grandi e soddisfacenti da cacciare, ma anche più adattivi e prolifici. La situazione è rimasta in equilibrio per qualche decennio, poi è esplosa, perché la tendenza a uccidere esemplari più grossi ne ha fatto saltare la struttura sociale, nella quale una sola femmina e un solo maschio anziano possono procreare. Senza questi limiti, si sono moltiplicate le possibilità riproduttive dei giovani e le cucciolate. Inoltre gli inverni sono più caldi, più cuccioli sopravvivono e i numeri crescono.

Nessuno sa quanti cinghiali ci siano oggi in Italia. Si dice 1 milione ma non è un dato, è più un ordine di grandezza, «un numero a caso» commenta Ferroni. Dei cinghiali per ora possiamo solo contare gli effetti. La spesa rubata di Formello sarà solo una buona storia da raccontare, ma i veri problemi sono la distruzione di coltivi e gli incidenti stradali. «È un animale che può colpire qualunque tipo di coltivazione a terra, da quelle di pregio, come le fragole, a quelle estensive, come i cereali. Dal Piemonte ci hanno appena segnalato 2,5 milioni di euro di danni all’anno», spiega Piero Genovesi di Ispra. «Sul problema incidenti non abbiamo numeri, ma sappiamo che sono in aumento, diverse prefetture ci hanno contattato allarmate: Pesaro, Bari, Isernia, Roma». Le città si sono espanse, le aree boschive anche e i punti di contatto sono tanti, soprattutto a Roma. Essere il più grande comune agricolo d’Europa porta i problemi dell’agricoltura. I cinghiali finiscono in mezzo, incapaci evolutivamente di sapere come comportarsi nel traffico.

Il futuro è un enigma senza soluzioni facili. Si discute e si cerca di armonizzare politiche regionali e mondi spesso incapaci di parlarsi. «In Italia si procede in maniera umorale, invocando gli abbattimenti», spiega Mazzatenta, «ma serve una strategia biologica, stabilizzare la popolazione, farla invecchiare, trovare un equilibrio e ricolonizzare le aree boschive». Genovesi invoca la collaborazione di parti che in Italia difficilmente fanno gioco di squadra: agricoltori, amministrazioni, parchi e cacciatori, per trovare una formula di contenimento che funzioni per tutti. Al momento ognuno gioca la sua partita, come tante crisi ambientali italiane anche questa si è cronicizzata. E all’orizzonte c’è un problema sanitario: la peste suina africana, che qui ancora non c’è, ma è presente in Germania, Belgio, Polonia. Non si trasmette agli esseri umani, ma con questa densità di cinghiali rischierebbe di arrivare negli allevamenti di maiali e sarebbe una catastrofe economica, con abbattimenti generalizzati e blocco delle esportazioni.

© Riproduzione riservata