Su Domani arriva il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra.

Nel seguente articolo, pubblicato sul "Giornale di Sicilia" del 9 maggio 1978, Mario Francese, nel riassumere le risultanze investigative sulla rete di favoreggiatori di Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella e Salvatore Riina, pose in risalto gli intensi rapporti intercorrenti tra il nipote di quest’ultimo, Giovanni Grizzaffi, ed esponenti mafiosi come Giuseppe Giacomo Gambino, Francesco Madonia e Giuseppe Madonia:

Le indagini sugli omicidi nel corleonese.

Sette in odore di mafia proposti per il "soggiorno". Dietro il rapporto di denuncia la tela delle complicità con i grossi boss latitanti.

Il 18 maggio decide il tribunale.

Sette persone di Roccamena, Monreale, Corleone sono state proposte dalla Procura della Repubblica per il soggiorno obbligato: la proposta è stata fatta nel quadro delle indagini sulla catena di delitti registratasi in questo triangolo a partire dal 1977. Il fatto più grave, per il duplice omicidio di Ficuzza in cui persero la vita il colonnello Giuseppe Russo ed il suo amico Filippo Costa. La proposta della Procura, ha fatto seguito ad un rapporto del nucleo investigativo dei carabinieri che ha segnalato l'opportunità di allontanare dai comuni di residenza alcune persone che, ritenute legate alla mafia, non hanno potuto essere raggiunte da prove per specifici delitti. Il giudizio camerale è stato fissato per il 18 maggio. I sette proposti per il soggiorno obbligato, sono solo in parte personaggi noti alla cronaca:

Gioacchino Cascio, 68 anni, reduce da tre anni dal confino (1975) e nei cui confronti il tribunale, nel settembre scorso, si era pronunciato per il "non luogo a procedere". Oriundo di Roccamena, risiede da tempo a Monreale. Bartolomeo Cascio, 34 anni, di Roccamena, nipote di don Gioacchino e, per alcuni successore dello zio nel comando della cosca mafiosa locale: Giuseppe Giambalvo, 23 anni, personaggio praticamente tenuto d'occhio da carabinieri e polizia.

La lista dei corleonesi proposti per misure di prevenzione comprende:

Francesco Spadafora, 68 anni, e il figlio Liborio, 29 anni, entrambi agiati agricoltori, abitanti in via Puccio 44, e i fratelli Giovanni Grizzaffi, 29 anni, e Francesco, 23 anni.

Spadafora padre, già nel 1961, per quanto incensurato, era stato tirato in ballo dai carabinieri in seguito all'omicidio di Vincenzo Cortimiglia, assassinato, com'è noto, in via Puccio. Secondo gli investigatori, Spadafora avrebbe dovuto vedere gli assassini, che si allontanarono a piedi e fecero perdere le loro tracce sparendo per il dedalo di viuzze della zona. Prosciolto dal favoreggiamento, Spadafora senior era stato proposto, cinque anni fa, a misura di prevenzione, ma il tribunale non aveva ritenuto di allontanarlo da Corleone. Il suo nome è stato "ripescato" in occasione dell'indagini per la catena degli omicidi dello scorso anno e, questa volta, insieme a quello del figlio Liborio. La Procura li accusa di essere tra i più qualificati favoreggiatori della latitanza di Salvatore Riina, Leoluca Bagarella e Bernardo Provenzano.

Ed infine i fratelli Grizzaffi: sono entrambi nipoti di Salvatore Riina, in quanto figli di una sorella del latitante luogotenente di Luciano Liggio. Giovanni, in particolare, ha avuto in affitto per una cifra simbolica, un feudo di 90 salme di terra, in contrada Rocche Rao di Corleone, acquistato dalla società "Risa" (secondo alcuni "Salvatore Riina"), controllata da Liggio e padre Agostino Coppola. Insieme al fratello Francesco, secondo gli inquirenti, terrebbe i collegamenti tra i latitanti del clan Liggio e i loro familiari e si sarebbe adoperato a trovar loro rifugio sicuro, ogni qualvolta Riina, Bagarella ed amici sono stati obbligati a far tappa a Corleone.

I carabinieri accertarono che al matrimonio di Giovanni Grizzaffi, il 6 settembre 1973, intervennero noti esponenti della mafia del palermitano, tra cui i rappresentanti delle famiglie di San Lorenzo Colli (borgata in cui Totò Riina sposò segretamente Antonietta Bagarella), Giacomo Gambino e Gaetano Carollo, Giuseppe e Francesco Madonia, boss del fondo Gravina di Pallavicino, Biagio Martello, poi coinvolto nell'"anonima sequestri" e fratello del gioielliere Mario, condannato a 15 anni per il sequestro del nipote di don Peppino Garda, Franco Madonia e Francesco Ponente, fratello del famoso capomafia "don" Gaspare, assassinato nel 1958.

Guerre fra clan

Nello stesso periodo, Mario Francese offrì anche una precisa interpretazione della catena di delitti collegata alla costruzione della strada a scorrimento veloce tra Palermo e Sciacca. Egli, nell’articolo di seguito trascritto, apparso sul "Giornale di Sicilia" dell’8 agosto 1978, pose in risalto la correlazione tra l’assassinio dei fratelli Ignazio ed Antonino Di Giovanni (uccisi, rispettivamente, il 12 ottobre 1977 e il 7 agosto 1978), da un lato, e il tentato omicidio del boss di San Cipirello Salvatore Celestre (avvenuto l’11 luglio 1978), dall’altro; inoltre, il cronista esplicitò che il Celestre aveva ottenuto per i suoi nipoti il subappalto di un tratto della suddetta strada, nei pressi del tratto la cui costruzione era affidata ai Di Giovanni:

Terzo cadavere attorno ai cantieri della Palermo-Sciacca.

La superstrada conduce al cimitero. L'11 luglio per un soffio la lupara mancò il boss Celeste.

Il presunto capomafia è ancora ricoverato in ospedale: gli hanno amputato il braccio.

Vendicato l'attentato subito dal "patriarca" di San Cipirello Salvatore Celeste, 76 anni, la sera dell'11 luglio scorso? Questo l'interrogativo che si sono posti gli inquirenti quando, verso le 9 di ieri, la lupara ha abbattuto Antonino Di Giovanni, 54 anni, fratello e socio di Ignazio, assassinato nel primo pomeriggio del 12 ottobre dello scorso anno nel suo cantiere di contrada Pernice di Camporeale. Per l'attentato di un mese fa, don Totò Celeste è ancora ricoverato in ospedale, dove gli è stato amputato il braccio che i killer gli avevano spappolato con due fucilate a lupara.

Ma, fermo il capo-cosca, la vita è continuata e i contrasti e gli odi, anziché placarsi, si sono acuiti. Alta la posta in palio: assicurarsi il predominio economico in un vasto territorio dove sono in corso opere pubbliche per svariate centinaia di miliardi.

Il clan di don Totò Celeste, dopo l'infortunio giudiziario conseguente all'omicidio di Ignazio Di Giovanni, si è da alcuni mesi ricomposto. Antonino Celeste e il fratello Giuseppe, nipote del "patriarca" di San Cipirello, "profughi" in Toscana subito dopo l'uccisione di Ignazio Di Giovanni, colpiti da mandato di cattura per il delitto insieme a Filippo Fascellaro e a Giuseppe Agrigento e prosciolti per insufficienza di prove dal giudice istruttore Giuseppe Rizzo, dopo un'ulteriore tappa in Toscana sono tornati nella loro terra dove, naturalmente, forti della protezione e dell'ascendente del vecchio don Totò, hanno cercato di reinserirsi nel mondo produttivo e speculativo.

Dall'altra sponda, quella dei Di Giovanni, si è cercato di non essere da meno. Ignazio Di Giovanni, pregiudicato e spacciatore di moneta falsa fino al 1975, aveva costituito con i fratelli Carmelo, Antonino (l'ucciso di ieri), Angelo e Lorenzo una società specializzata in sbancamenti e lavori stradali. La società aveva in appalto un tratto della superstrada veloce Palermo-Sciacca, tra Zabia e Balletto. E su questo tratto, Ignazio aveva creato una stazione di servizio, su concessione della Total, dove aveva sistemato i suoi tre figli maschi più grandi.

Don Totò Celeste, pare, amico e guardaspalle di un grosso imprenditore di San Giuseppe Jato, era riuscito a sistemare i suoi nipoti ottenendo loro il subappalto di un tronco della Palermo-Sciacca, vicino a quello che costruivano i Di Giovanni.

Questioni di prestigio e di interessi, quindi. L'impresa Di Giovanni per l'acquisto di attrezzature si era indebitata fino al collo: per ruspe e bulldozer pagavano e pagano cambiali per otto milioni al mese. Cambiali che, caso strano, portano la firma dei due fratelli uccisi, Ignazio e Antonio.

Il "patriarca" Salvatore Celeste, per quanto avanti negli anni, a San Cipirello è un boss che conta. Hanno tentato di farlo fuori ed anche in quella occasione, nonostante i 76 anni suonati, ha dimostrato di avere ancora intuito, freddezza e presenza di spirito. Ha evitato per un pelo la morte con una schivata insospettabile in un vecchio. E non si può tentare di far fuori un pezzo di novanta del calibro di Salvatore Celeste. Sembra che la "contropartita" abbia avuto già il suo prezzo di vite umane.

Il triangolo della morte

Mario Francese colse con chiarezza il legame che univa numerosi omicidi verificatisi, negli anni 1977-78, tra Roccamena, Partinico, Monreale, Corleone, e i conflitti tra i clan mafiosi interessati al controllo degli appalti e subappalti di opere pubbliche. Particolarmente significativo è il seguente articolo, apparso sul "Giornale di Sicilia" del 9 agosto 1978:

Appalti e subappalti controllati dalla mafia. Fra Belice ed Jato c'è guerra di “clan”.

Tanti piccoli agricoltori si sono improvvisati imprenditori nella speranza di arricchirsi rapidamente partecipando alla “torta” delle opere pubbliche. Per tirare avanti devono pagare cambiali: come dire che “devono” lavorare a qualunque costo.

Nove morti a Garcia: ora una nuova faida

Puntuale a luglio, nel triangolo Roccamena-Partinico-Monreale, è ripresa la guerra fra clan familiari e cosche mafiose per la conquista di "un posto al sole". Nel luglio dello scorso anno a Roccamena e a Corleone si cominciò a sparare e si giunse al 20 agosto, a Ficuzza, l'assassinio del colonnello Russo ed un bilancio di nove cadaveri e un triplice tentato omicidio. Si è ripreso nel luglio di quest'anno (con la parentesi di ottobre 1977: vittima Ignazio Di Giovanni) con un bilancio pesante di tre cadaveri e un tentato omicidio. I tre morti nell'ordine sono: Francesco Martorana e Salvatore La Barbera, assassinati nei pressi di Pioppo nella notte tra il sabato e la domenica scorsi, e Antonino Di Giovanni, fatto fuori lunedì mattina alla periferia di San Cipirello.

L'11 luglio, i killer hanno mancato di uccidere per un soffio il patriarca di San Cipirello Salvatore Celeste, 76 anni (che ha subito l'amputazione del braccio destro), sua moglie Lina Rappa e una nipote, raggiunta ad un polso e ad un braccio da schegge di pallettoni.

Perché la ripresa di questa guerra feroce e senza esclusione di colpi? Quali gli interessi che polarizzano l'attenzione delle cosche mafiose? Quali i clan che si combattono tra loro per assicurarsi l'esclusiva in remunerativi appalti o subappalti di opere pubbliche?

Nella vallata del Belice e nel triangolo Monreale-Roccamena-Corleone, in attesa della vendemmia e dell'acqua della diga Garcia, la vita trascorre lenta, senza apparenti novità. La monotonia è interrotta da un continuo via vai di grossi camion in gran parte di Camporeale, che si muovono nelle anguste strade di San Giuseppe Jato, San Cipirello, Roccamena, Montelepre e Partinico. Camion che fanno spola con la diga Garcia, in corso di costruzione, per trasportarvi materiale inerte e conglomerati cementizi: una diga che, dopo la costruzione della galleria in cui sono state deviate le acque del Belice, va progredendo da Garcia verso Roccamena "divorando" circa 800 ettari di vigneto, ancora in piena produzione. E sul letto di questa diga immensa è un assordante manovrare di pale meccaniche e ruspe che scavano, appianano, distruggono e creano il grande letto del nuovo invaso. Ed i camion si muovono anche per la costruzione della superveloce Palermo-Sciacca.

A San Cipirello, come a Roccamena, si guarda a queste colossali opere pubbliche e alla costruzione delle cittadine terremotate del Belice come ad una occasione di lavoro remunerativo e sicuro, che durerà per molti anni. Ma ci sono anche gruppi di potere per i quali le opere pubbliche sono occasione di rapido arricchimento.

Esenzioni e agevolazioni fiscali favoriscono la corsa a improvvisarsi costruttori, a ricercare con appoggi politici appalti e subappalti nella Valle del Belice. I Di Giovanni, i Celeste, I Randazzo ed altri "gruppi" di Roccamena, San Cipirello, Partinico, Borgetto, Corleone e Monreale, fanno parte di questa schiera di "operatori emergenti": hanno impegnato tutti i capitali disponibili nell'acquisto di pale meccaniche e automezzi nella speranza di assicurarsi una fetta delle opere pubbliche in corso, programmate e in via di finanziamento.

«A San Cipirello - dice il sindaco socialista Stagno - così come a San Giuseppe Jato, non ci sono in programma costruzioni imminenti di opere pubbliche che possano, in loco, provocare contrasti o rotture di equilibri preesistenti. Le opere pubbliche più in vista del momento sono in corso nella Valle del Belice e nelle zone terremotate oltre che a Garcia. La rottura di equilibri tra clan familiari o cosche mafiose potrebbe essere stata determinata da interessi lontani da questo comune».

«I lavori sul lotto della superstrada Palermo-Sciacca - aggiunge Ignazio Di Giovanni, figlio di Angelo e nipote dello zio suo omonimo, ucciso il 12 ottobre scorso in contrada Pernice di Camporeale, e nipote dell'ultimo assassinato di lunedì, Antonino Di Giovanni - li avevano completati. Abbiamo lavorato con lo zio Nino alla diga di Paceco, già ultimata per sbancamenti e fornitura di inerti. Ora il lavoro scarseggia e per tirare avanti e pagare le cambiali facevo anche l'autotrasportatore, con viaggi in continente. Non so con esattezza se mio zio Nino avesse lavori in corso. Avevamo poco tempo per vederci e quando ci incontravamo ci salutavamo soltanto».

Il ragazzo parla e trema. Sa bene che il clan familiare dei Di Giovanni è segnato. Quale sgarro ha compiuto? Probabilmente sono venuti su troppo in fretta e dal nulla sono diventati "padroncini" che in questa contrada vuol dire avere una ruspa e un paio di camion dietro i quali, magari, si cela una montagna di cambiali da pagare ad ogni costo.

Ad ogni costo: e per farlo è necessario non tenere i mezzi fermi neppure un giorno. Bisogna lavorare con tenacia e con decisione, ma non soltanto nello sbancamento della terra: ma soprattutto con i rapporti con le imprese, con i loro capi cantieri, non di rado con i "guardiani", che contano e passano quanto, se non di più, dello stesso imprenditore. Ed il clan dei Di Giovanni con questa decisione e con questa tenacia era riuscito a farsi strada.

Mentre i lavori sono ancora in corso per costruire la "superstrada" Palermo-Sciacca loro avevano già piazzato, in un punto strategico dell'arteria, una stazione di servizio. E dopo l'assassinio di Ignazio erano stati costretti a chiuderla.

Chi li odia aveva deciso di non dare loro tregua: magari di vendicarsi per i lavori che i Di Giovanni avevano ottenuto magari a scapito di qualcun altro.

In questo lungo susseguirsi di colline che somigliano a dune, due società tanto simili nel nome sociale, ma tanto diverse per le forze che rappresentano, hanno fatto la parte del leone nell'acquistare appalti, subappalti, esclusive di fornitura. Sono la INCO e la IMAC. Quest'ultima è amministrata da Rosario Cascio che è uno dei maggiori imprenditori di Montevago. Attorno ad essa la banda famelica di tanti piccoli Di Giovanni ai quali basta spostare qualche metro cubo in più o in meno di terra per sopravvivere o per fallire.

Per trovare il bandolo della matassa che conduce agli assassini dei due fratelli, bisogna scavare a fondo in questo gioco di piccoli appalti.

«I Di Giovanni - dicono in piazza a San Cipirello - erano lavoratori ma avevano un grosso vizio: parlavano troppo: e qualche volta anche minacciavano. Poi magari non sarebbero stati capaci di fare del male. Ma può sempre capitare che qualcuno alle minacce ci creda. E in questi casi morire è molto facile».

La sentenza in questione è quella della Corte di Assise di Palermo, presidente Leonardo Guarnotta, contro Salvatore Riina +9.

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