Non ci è dato sapere quando Donald Trump si rassegnerà ad accettare la sua sconfitta, ma una cosa è certa: il Partito repubblicano di per sé ha ottenuto dei buoni risultati nelle elezioni presidenziali e ora si gioca tutto nella ridefinizione della sua identità post-Trump. In sospeso c’è ancora la maggioranza in Senato, con le due poltrone della Georgia che verranno assegnate dopo i ballottaggi del prossimo 5 gennaio. Per questo – fino ad allora – i repubblicani sono costretti a muoversi con cautela: prendere nettamente le distanze da Trump proprio adesso potrebbe essere rischioso.

Tuttavia le dichiarazioni su presunte frodi elettorali e sull’integrità del sistema democratico hanno messo molti di loro a dura prova. Tra di essi c’è Rick Santorum, ex senatore della Pennsylvania e candidato alle primarie del partito repubblicano alle presidenziali del 2012 e 2016 (nel primo caso si è piazzato secondo dopo Mitt Romney, nell’ultimo si è ritirato quasi subito). Al momento è tra i commentatori di Cnn, in rappresentanza del Grand old party.

La telefonata inizia con un “buongiorno”. La sua famiglia paterna è infatti di origini italiane, più precisamente di Riva del Garda. La madre era per metà italiana e per metà irlandese. Il mix non può che far pensare a un’educazione cattolica: Santorum l’ha coltivata e anzi consolidata in senso conservatore anche insieme alla moglie, con la quale sta crescendo sette figli.

In una recente intervista ha detto che «Trump ha trasformato il partito repubblicano in un modo che lo aiuterà a sopravvivere nel futuro». Può spiegare cosa intende?

Mi sono candidato nelle elezioni del 2012 con un’agenda che riconosceva che gli Stati Uniti sono cambiati per la rivoluzione tecnologica. È cambiata l’economia, ma anche la struttura politica. Il partito repubblicano è stato a lungo il partito del mercato libero, del business, della crescita economica, il tutto combinato con valori a difesa della famiglia tradizionale.

La rivoluzione tecnologica ha cambiato tutto. Il mondo in cui girano i soldi non è più conservatore. Le società tecnologiche si sono insediate nelle aree metropolitane e suburbane soprattutto sulle coste, dove la mentalità è più progressista e liberale. Ora è lì che si concentra la ricchezza.

Il Partito democratico è passato dall’essere il partito dei lavoratori ad essere il partito della big tech e della gig economy, di un’economia globale che non si preoccupa del 70 per cento degli americani adulti che non hanno una laurea. È molto meno vicino al lavoratore americano medio, non solo sulla questione economica, ma anche sull’immigrazione.

Il Partito democratico un tempo non era così favorevole all’apertura dei confini e all’immigrazione di massa, perché questa rappresenta più competizione per i lavoratori blue collar (letteralmente “colletti blu”, operai ndr). E non parlo solo dei lavoratori bianchi, ma anche di quelli neri e soprattutto dei latinos.

Ho scritto anche un libro Blue Collar Conservatives: Recommitting to an America That Works insistendo sull’importanza, per il Partito repubblicano, di allinearsi con la classe lavoratrice su questioni come il commercio, l’immigrazione e la politica economica. Ne ho parlato con Trump prima che si candidasse, e lui ha difeso questa impostazione con successo.

Sul fronte immigrazione però Trump ha adottato misure drastiche e anche usato espressioni estremamente offensive, soprattutto nei confronti dei latinos.

Sul fronte immigrazione Trump non ha avuto particolare successo, ma penso più per una questione di retorica che di politica vera e propria. È quella che ha fatto allontanare molte persone e ha fatto credere a molti immigrati che il partito repubblicano non sia amichevole nei loro confronti. In realtà molti ispanici non appoggiano una politica di apertura totale dei confini, perché appunto significherebbe più concorrenza, per tutti, senza distinzione di razza.

Anzi, la maggior parte dei latinos è cristiana e condivide con noi i valori della famiglia tradizionale. Il partito repubblicano deve continuare sulla linea di Trump, ma deve anche espanderla per includere attivamente i lavoratori di colore. È questa la grande opportunità che abbiamo.

Ha nominato la retorica di Trump. Quanto la sua personalità ha giocato un ruolo in queste elezioni?

Molta gente lo ha votato proprio per la guerra che porta avanti contro i media, la burocrazia, per il suo impegno ad “asciugare il pantano” di Washington (drain the swamp era uno degli slogan di Trump nel 2016, ndr). E io sono tra loro. Anche io penso che i media non siano onesti, che in generale siano molto di parte, e credo che sia importante che qualcuno punti il dito contro questa cosa. Il problema è che un conto è puntare il dito, un conto è insultare e portare avanti attacchi meschini. È il modo in cui lo ha fatto che ha allontanato molte persone.

Un altro degli slogan favoriti di Trump è “America first”. Pensa che continuerà a essere difeso dal partito repubblicano anche in epoca post-Trump?

A differenza dell’Europa, qui abbiamo un sistema basato solo su due partiti, ma ci sono temi su cui questi partiti sono internamente divisi. Questo è uno dei temi. In generale credo che gran parte dei repubblicani sarebbero dell’idea di gestire i rapporti con gli altri stati in modo bilaterale, piuttosto che aderendo a organizzazioni e stabilendo accordi che coinvolgono insieme molte nazioni. Allo stesso modo ci sono altri che continuano a chiedere un impegno multilaterale.

Pensa che con Trump gli Stati Uniti siano riusciti a mantenere il loro status nel mondo?

C’è un punto in cui sono in forte disaccordo con Trump, la questione della sicurezza nazionale. Non sono un sostenitore di come ha gestito i rapporti con la Corea del Nord, non mi è piaciuta la sua decisione di dare alla Turchia il benestare di invadere la Siria. La lista è lunga. Il presidente ha fatto diversi errori sul fronte della politica estera.

E questo è un altro argomento su cui il partito è molto diviso, ma credo che la maggior parte dei repubblicani ritenga che l’America debba mantenere un ruolo importante nel mondo e non debba cedere terreno alla Cina, alla Russia o alle organizzazioni internazionali. In ogni caso, anche se ha difeso una politica di non intervento, nei fatti Trump si è poi rivelato molto proattivo su certi fronti, come quello ucraino. A loro ha fornito molte più armi e sostegno per contrastare la Russia di quanto abbiano fatto Obama e Biden in otto anni. E sostengo anche le forti restrizioni imposte all’Iran. In generale ha sempre detto di non voler intervenire, ma poi lo ha fatto.

E la religione? Che ruolo ha giocato in queste elezioni? Trump è stato molto controverso anche su questo punto, suscitando critiche da parte di diversi leader religiosi tra cui papa Francesco.

Non penso che la situazione sia cambiata di molto in queste elezioni rispetto agli ultimi 20 anni. Se vai in chiesa voti per i repubblicani, se non ci vai voti per i democratici. Non importa se sei evangelico, protestante o cattolico. Dipende dalla frequentazione della chiesa, da quanto seriamente prendi la fede, se è qualcosa che guida le tue scelte o semplicemente un credo in cui ti identifichi. Rispetto ai cattolici: in generale si sono divisi tra Trump e Biden, ma come dicevo ha fatto la differenza il frequentare o meno la chiesa. Più che la fede, conta quanto sei coinvolto. E stessa cosa la vediamo accadere per l’ebraismo.

Quando Kennedy si candidò alla presidenza, il fatto che fosse cattolico era un tema di discussione. Cosa pensa del cattolicesimo di Biden?

Al giorno d’oggi non penso che essere cattolico faccia alcuna differenza rispetto ad altre fedi cristiane. Per molti cattolici quello che conta è che Biden dice di esserlo, ma poi su questioni che non sono negoziabili per il cattolicesimo lui non segue quello che insegna la religione. Uno a parole può definirsi come vuole, non credo che alla gente importi se Biden è un buon cattolico o meno, quello che conta è se le sue politiche rispecchiano il suo definirsi cattolico. Certi cattolici semplicemente sentono di non poter votare per qualcuno che non reputa sbagliato togliere la vita ad esseri innocenti.

Pensando al 2024, sarebbe disposto ad appoggiare di nuovo una candidatura di Trump?

Beh, non posso ancora esprimere preferenze per il 2024, posso solo dire che io non sarò tra i candidati. Però sono certo che si faranno avanti delle persone estremamente valide, che sapranno identificare le principali minacce per il futuro del paese e con le quali condivido pienamente valori e visione.

Minacce di che tipo?

Il Partito democratico si è radicalizzato in senso socialista, spingendo per un ruolo molto preponderante dello stato e promuovendo la cancel culture. Noi non possiamo pensare a un paese con i confini aperti o in cui in dieci anni verranno completamente eliminati i combustibili fossili. Queste sono le questioni che preoccupano i repubblicani e che invece infervorano i democratici. Ci sono movimenti progressisti così accaniti che tentano di identificare coloro che hanno sostenuto Trump per ostacolare la loro vita lavorativa, una vera e propria punizione verso chi non la pensa come loro.

Mettiamola così: Trump ha perso queste elezioni e hai visto mettere le città a ferro e fuoco? No. Sono certo che se fosse accaduto il contrario sarebbe stato diverso. Nelle principali città americane hanno blindato le vetrine prima del 3 novembre perché sapevano che se Trump avesse vinto chi è sceso in piazza a festeggiare, sarebbe invece uscito per sfogare la rabbia. Noi anche combattiamo, ma combattiamo nelle corti.

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