Per molto tempo la nazionale femminile di pallacanestro è stata la nostra squadra del futuro. L’Italia ha vinto il titolo europeo nel 2018 con le under 16 e nel 2019 con le under 18 e con le under 20, l’argento mondiale del 2016 con la under 17. Eppure continuiamo a mancare i mondiali dal 1994 e non andiamo alle Olimpiadi dal 1996. Con il complesso della pallavolo da sconfiggere.

Negli ultimi venticinque anni si sono alternati sette commissari tecnici; ora riprende la panchina Andrea Capobianco, al suo terzo mandato, in tempo per l’inizio del cammino verso gli europei del 2025, con la partita di stasera contro la Grecia a Vigevano e la certezza di partecipare comunque vada il girone. Un girone pro forma, giocato fra le nazioni che organizzeranno il torneo, ci sono anche Germania e Repubblica ceca.

«Passione e attaccamento alla maglia azzurra», sono le prime parole che pronuncia Capobianco. Gli europei in casa sono una motivazione extra per un gruppo che insegue un risultato di spessore che sfugge da tanto, nonostante la progressiva crescita del movimento in questi anni.

«Facendo una fotografia al settore femminile attuale», dice il c.t., «troviamo squadre che si stanno ben comportando nelle coppe, giocatrici di valore a livello europeo e prospetti giovanili sulla strada per diventarlo. Resta la questione di un numero di praticanti ancora non elevato: bisogna insistere nel creare il desiderio di pallacanestro e fare innamorare del gioco le ragazze quando sono più giovani, con piani strutturati di reclutamento e di avvicinamento al basket nelle scuole, così da allargare la base come succede per un altro sport in crescita come la pallavolo. La logica conseguenza diverrebbe l’aumento del numero di atlete eleggibili per la nazionale».

Una nazionale che riparte da molte giocatrici che hanno già partecipato all’europeo dello scorso giugno: «Il nucleo della squadra è composto da tante giovani, che nell’occasione del torneo del 2025 saranno all’apice del proprio sviluppo fisico e tecnico.

Non avremo troppe opportunità di giocare insieme, vista la lontananza delle prime due finestre fra loro, e quindi abbiamo l’esigenza di cementare questo gruppo. Non si tratta di una bocciatura per le escluse, anzi; alle varie ragazze che vogliono vestire l’azzurro chiedo di mettermi in difficoltà nelle scelte con le prestazioni nelle squadre di club.

Se vogliamo pensare a una partita come a una festa, dobbiamo presentarci con l’abito più bello che abbiamo, ed è perciò sensato partire da quanto fatto in precedenza, a cui poi aggiungere le mie idee: abbattere tutto per poi ricominciare ogni volta da capo non può portare alla costruzione di qualcosa di solido, che invece è sempre frutto di un percorso composto da più tappe».

Il suo percorso

Tante sono le tappe della carriera di coach Capobianco, che ha dimostrato una enorme versatilità nel mondo cestistico: è stato impegnato sia nel settore femminile che in quello maschile, sia con le squadre di club che con le selezioni nazionali, sia con le rappresentative giovanili che con le senior, sia nella versione classica del 5 contro 5 che in quella 3x3.

Con un fil rouge a collegare tutte queste esperienze così diverse: «In ogni nuova avventura si può riportare qualcosa del proprio passato e adattarlo alla situazione che si sta vivendo. Mi viene in mente lo storico successo nel torneo di Mannheim con la selezione maschile under 18 del 2014, dove per gli allenamenti riutilizzai stratagemmi dei miei primi anni da coach nelle categorie inferiori, ovviamente ricalibrati rispetto al contesto.

Erano anni in cui ci allenavamo anche su campi all’aperto, con i giocatori che cercavano di perder tempo affinché arrivasse il buio e si chiudessero così le sedute, che invece proseguivano illuminate dai fari della macchina che io accendevo e puntavo verso il campo. Porto sempre con me dei concetti da applicare in tutti i contesti.

Si parte dallo studio del gioco, per comprenderne le diverse sfaccettature e capire come migliorare la qualità di ciò che si propone in palestra, adattandosi alle circostanze che si vivono, senza affidarsi a dei cliché. Ho sempre prediletto giocare in contropiede con le mie squadre: un concetto però inapplicabile nel basket 3x3. Il fattore comune deve quindi essere l’intensità, la rapidità, da non confondere con la fretta di fare qualcosa.

Credo nella sua traduzione nei fondamentali del gioco, anche quelli più indigesti, come non farsi battere facilmente nell’uno contro uno in difesa. È fondamentale allenare come suggerisce l’etimologia dal latino del termine, nel senso di dar forza: facendolo attraverso il lavoro sui propri limiti, dopo averne preso coscienza, per sapere dove migliorare, e come mascherarli di fronte alle avversarie».

L’aspetto umano

Prima viene la donna, dice Capobianco. «Allenare la persona che c’è dietro l’atleta: non si deve commettere l’errore di pensarle tutte uguali, solo perché accomunate dal ruolo di praticanti di uno stesso sport. Bisogna avere la coscienza di come vadano trovate le modalità appropriate per rapportarsi con ciascuna giocatrice, toccando le corde giuste in un mondo che cambia e che impone di continuare a studiare, non arroccarsi sulle proprie convinzioni per rimanere al passo coi tempi. Mi sono rimesso a studiare, ho preso una seconda laurea in psicologia a cinquant’anni proprio per comprendere sempre di più le meccaniche relazionali».

Meccaniche relazionali solide con altri nomi del basket italiano, da Giuseppe Poeta (assistente allenatore della nazionale maschile e dell’Olimpia Milano) a Marco Ramondino (capo allenatore a Tortona) e Vincenzo Di Meglio (capo allenatore a Roma nella A femminile). La chiamano scuola Capobianco.

«Non si tratta di persone che ho plagiato, tutt’altro. Con loro, così come con molti altri colleghi, la crescita è arrivata e continua ad arrivare attraverso tante discussioni, affrontate da posizioni a volte opposte; discussioni che si tramutano in occasioni per una maturazione reciproca, non in un solo verso.

Così come sono utili i confronti con le ragazze e i ragazzi più giovani, che spesso mi sono ritrovato a lanciare all’inizio del loro percorso. Sebbene sia facile farne i capri espiatori rispetto ai veterani, bisogna avere il coraggio di dar loro le stesse possibilità, mettendo in conto gli errori dell’età e infondendo fiducia. Solo in questo modo potremo trovare il talento nelle nuove generazioni».

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