Su Domani arriva il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Dopo la serie sull’omicidio di Mario Francese, si continua con la narrazione del patto tra Cosa Nostra e i colletti bianchi.

Se scendi nei quartieri a Catania le “squadre” ci sono ancora, ora come nel passato. Se provi la sera ad avvicinarti a piedi nella zona di piazza Dante, o nei viali di Librino, potrai vedere giovani sui motorini, da soli o in piccoli gruppetti. I carusi somigliano a quelli del tempo in cui si sparava, perché continuano a controllare il territorio, come in ogni buon manuale di tattica militare. Solo che hanno cambiato attività: anziché alle rapine e alle estorsioni si dedicano in prevalenza allo spaccio della droga.

Ma a Catania la maggioranza delle “squadre” non fa riferimento alla famiglia di Cosa nostra. Negli anni non solo si sono ingrandite le fila degli altri clan ma alcuni di essi si sono addirittura riuniti per essere più efficienti – esattamente come avviene nelle fusioni aziendali. Essi dunque, oltre che essere numericamente preponderanti, hanno ben poco da invidiare al clan Santapaola per capacità e strategia. Siccome siamo abituati a considerare Cosa nostra come la massima serie del campionato criminale della mafia, dobbiamo spiegare il perché a Catania le cose non stanno sempre esattamente così. L’anomalia sta nel fatto che essere dentro o fuori Cosa nostra per un mafioso di Catania non è dipeso dal suo carisma criminale, ma dal fatto di essere o meno gradito a Santapaola.

Tutto risale a quella cruenta e spietata guerra di mafia degli anni Settanta quando Nitto, con un colpo di mano, aveva messo fuori combattimento Giuseppe Calderone, il suo pupillo, l’odiato Alfio Ferlito, e tutta la schiera enorme dei loro seguaci. In uno stesso frangente non solo Salvatore Cappello, Salvatore Pillera, i fratelli Ignazio e Concetto Bonaccorsi, ma anche Sebastiano Laudani e i Di Mauro – “Puntina” – tutti uomini d’onore che erano tenuti insieme dal carisma di Pippo Calderone – decisero di uscire dalla casa madre e di fondare ciascuno un gruppo criminale autonomo. Gli unici che all’origine erano nati fuori da Cosa nostra, erano i cursoti e i carcagnusi, ma possiamo ritenere che – se non vi fosse stato quel big bang criminale – sarebbero stati federati in quello che era destinato a divenire un unico grande gruppo. E invece accadde esattamente il contrario: l’odio per Nitto portò alla parcellizzazione, in tante formazioni distinte, di mafiosi guidati da capi che erano stati uomini d’onore. Così era sorta l’anomalia di Catania con i suoi gruppi frazionati e sempre in lotta o in alleanza tra loro, con una girandola di storie, di tradimenti, di amicizie e di conflitti che farebbe girare la testa a chi volesse ricostruirli con una logica unitaria. Ma dentro ogni gruppo oramai formalmente estraneo a Cosa nostra, si era diffuso il DNA dei capi che erano stati tutti uomini d’onore. E questa è la ragione per la quale i gruppi mafiosi catanesi hanno mantenuto una strategia unitaria e una uguale capacità di rinnovarsi.

Il potere dei Cappello

Il clan Cappello è oggi la formazione più vasta e capillare che è presente a Catania. Il suo fondatore Salvatore Cappello era un uomo d’onore vicino a Giuseppe Calderone, da sempre abituato a grandi alleanze e alla espansione su altri territori. Legato a una donna napoletana, Maria Rosaria Campagna, aveva ottimi rapporti con la criminalità partenopea. Una amicizia fortissima lo univa da sempre a Ignazio Bonaccorsi ’u carateddu. Proprio a Napoli nel 1992 era finita la latitanza di entrambi i boss mentre erano ospitati in un appartamento nella disponibilità della Campagna. Ma la fortuna del suo clan andò avanti ugualmente. Il Cappello aveva a lungo lavorato per stringere alleanza con gli altri gruppi guidati da Antonino Pace, Giovanni Piacenti ’u Ceusu, Corrado Favara“Puntina” oltre che col comprimario Ignazio Bonaccorsi. E così negli anni quella che era stata all’inizio una federazione di gruppi diventò addirittura un trust di forze criminali, capace di disporre di centinaia di uomini suddivisi in squadre e presenti in tutta la città.

Sennonché nei primi anni Duemila il gruppo Cappello-Bonaccorsi oramai unificato vide l’ascesa lenta al suo interno di esponenti della componente Bonaccorsi, e in particolare Lo Giudice Francesco e Privitera Orazio che ne rilanciarono sia la forza operativa sia la capacità di introduzione nei mercati illegali, in particolare quello della droga e delle estorsioni. Il richiamo della nuova formazione fu talmente forte da attrarre a sé anche importanti settori criminali che prima erano stati saldamente connessi alla famiglia Santapaola. E fu così che, abbandonando Cosa nostra, si unirono alla formazione anche il gruppo facente capo a Francesco Crisafulli, nonché le squadre facenti capo a Strano e Squillace inteso mattiddina, che erano stati capi decina del gruppo Santapaola nei quartieri di Monte Po e Piano Tavola.

Il gruppo, divenuto oramai una compagine enorme, si diede una struttura che iniziava a risentire nella necessità di separare sul piano organizzativo il proprio vertice dalla base. Nella plancia di comando sedevano Salvatore Massimiliano Salvo e Calogero Giuseppe Balsamo, il primo responsabile degli affari in città e il secondo di quelli della provincia, strettamente raccordati a un direttorio che era pure composto da Santo Strano, Giovanni Catanzaro, e Giuseppe Salvatore Lombardo. Mentre le squadre operanti sui territori erano organizzatissime e tutte dotate di capi decina che, solo loro, potevano raccordarsi direttamente con i capi.

In coincidenza con questo nuovo assetto e con la reggenza di Salvo il gruppo faceva un salto di qualità. Non solo creava uno stacco con coloro che erano chiamati a svolgere le attività criminali di tipo tradizionale, ma iniziava a espandersi nel settore delle attività commerciali e/o imprenditoriali, attraverso imprese che erano diretta espressione del clan. In alcuni settori, come quello dello smaltimento dei rifiuti urbani, questo inserimento diveniva addirittura sistematico e si realizzava grazie alla aggiudicazione di appalti pubblici. E così, utilizzando le aziende dell’imprenditore Vincenzo Guglielmino, il clan iniziò a divenire esso stesso soggetto di impresa. Tra il Salvo e il Guglielmino si stabilì un’autentica cabina di regia degli appalti pubblici che venivano così distribuiti secondo un accordo con le altre famiglie mafiose. E pertanto, con riguardo alla gestione dei rifiuti, i servizi pubblici venivano presi in appalto senza concorrenza nelle gare: i territori di Gravina e Tremestieri sarebbero stati di pertinenza del clan Santapaola, mentre per Acicatena e Treccastagni si era determinata una tale convergenza con i funzionari pubblici che consentiva alla mafia del clan Cappello di ottenere ciò che voleva remunerandoli, facendo favori, intervenendo a loro difesa o a loro favore per qualsiasi incidente personale dovesse occorrere agli stessi. Così Salvo e Guglielmino superavano il vecchio metodo della “messa a posto” degli imprenditori che si aggiudicavano gli appalti pubblici. Sostituivano l’estorsione con la gestione diretta dei servizi da parte dell’impresa mafiosa. Anziché taglieggiare escludevano proprio le ditte estranee a Cosa nostra. Anziché rischiare con le minacce, truccavano gli appalti. Anziché incassare valigette di denaro contante, impossibile da investire a causa delle normative antiricilaggio, fatturavano direttamente i proventi alla “propria azienda”. E tutto questo solo corrompendo i funzionari infedeli. Un sistema scoperto dai magistrati della DDA di Catania che rilevavano quanto fosse pericolosa la sintesi dell’intreccio tra mafia, imprenditoria e politica mettendo in fila le conseguenze di “un sistema osmotico perverso” che realizzava obiettivi diversi: «erogazione reciproca di favori; soddisfazione di interessi divergenti tra loro; raggiungimento di interessi economici privati per i funzionari infedeli; monopolio di fatto sul territorio per l’imprenditoria corrotta; annullamento della libera concorrenza; controllo del territorio e la infiltrazione nell’apparato statale per la mafia». Insomma ce n’è abbastanza per capire che questa mafia dei Cappello ha poco a che vedere con coppole e malandrini.

È presente in ogni settore d’impresa, è moderna, evoluta, sommersa. Si muove all’interno di una strategia complessiva comune a Cosa nostra catanese e la porta più avanti, fino alla commistione tra mafia e corruzione. Contribuisce cioè a quel lento svuotamento della mafia militare e al suo lento riempimento con le condotte esterne. Contrapposta negli interessi alla Cosa nostra ufficiale, in realtà era guidata da Massimiliano Salvo che pur non essendo uomo d’onore come lo fu il padre, ha nelle vene sangue di Cosa nostra catanese, tanto che il suo progetto di azienda criminale sta più avanti rispetto a quello dei Santapaola. E questa è Catania con le sue contraddizioni anche nella mafia.

Testi tratti dal libro "Cosa Nostra S.p.a., di Sebastiano Ardita

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