A Singapore il cibo cresce sui grattacieli. In alcune zone del sud est asiatico le popolazioni locali non costruiscono case più alte degli alberi di cocco per non peccare di arroganza di fronte agli dei, ma le cosiddette “fattorie del cielo” della piccola città-stato asiatica sembrano dare conto più del pragmatismo dei suoi residenti che di un atto di eresia. Singapore ha più persone che ettari di terreni coltivabili.

Per questo ha deciso di produrre cibo ovunque riesca, per garantire agli abitanti la sicurezza alimentare e fare meno affidamento sulle importazioni. Può coltivare varietà non autoctone come cavoli e pomodori ciliegini sotto le luci artificiali di Sustenir Agriculture, una delle trenta fattorie verticali della città. Oppure può realizzare il sogno di ogni appassionato di fantascienza: allevare cellule animali e produrre carne di pesce in provetta, come fa Shiok Meats.

Il microstato asiatico è un hub finanziario e centro nevralgico degli affari globali che passano per il continente. Ha un’anima che si sviluppa in verticale, perché i suoi 725 chilometri quadrati circa di superficie devono contenere oltre 5,5 milioni di abitanti. Secondo i dati della World Bank, nel 2021 contava soli 560 ettari di terreno coltivabile (l’Italia ne ha più di sette milioni).

Dipendenza dall’import

Singapore importa più del 90 per cento del suo cibo, e ciò la espone particolarmente alle oscillazioni dei prezzi e alle interruzioni delle catene globali del valore. Come l’esperienza del Covid-19 e quella delle guerre in corso insegnano, l’economia globalizzata richiede prudenza ai paesi che dipendono fortemente dal commercio internazionale. Soprattutto per quanto riguarda i beni essenziali: con il cibo non si scherza.

Il tema della sicurezza alimentare, infatti, non è nuovo per le autorità singaporiane, che dopo la pandemia hanno spinto per una maggiore diversificazione delle fonti di approvvigionamento. La città stato asiatica è passata dall’importare da 172 paesi nel 2019 a 183 nel 2022. Tra i nuovi partner, anche Indonesia (per il pollo), Colombia (per la carne di maiale), e la piccolissima monarchia assoluta del Brunei Darussalam, che esporta crostacei, pesci, molluschi e uova, secondo i dati dello Un Comtrade database delle Nazioni Unite.

Sfamare una popolazione così numerosa con uno scarso spazio a disposizione è una sfida non da poco. Ma Singapore è considerata il polo dell’innovazione nel sudest asiatico, e non a caso. Passata in fretta da un’economia coloniale che raccoglieva materie prime destinate al commercio e importava manufatti, dopo l’indipendenza nel 1965 ha inaugurato una fase di modernizzazione all’insegna degli investimenti diretti esteri, raccogliendo non più materie prime ma capitale.

Da tempo è diventata un riferimento per il settore dell’agritech: sperimenta la coltivazione di ortaggi urbani e pratiche di agricoltura idroponica impiegando nuove tecnologie e tentando di combinare sostenibilità economica, ambientale ed esigenze alimentari. L’idea dei fautori di questa agricoltura futuristica è quella di produrre di più usando meno risorse. «Ogni volta che parlo di sicurezza alimentare a Singapore, dico alla gente di non pensare alla terra, ma allo spazio. Si può andare verso l’alto e verso il basso» ha detto a Reuters Paul Teng, professore specializzato in agricoltura presso la Nanyang Technological University di Singapore.

Lo spazio dei gamberetti

L’idea di Shiok Meats, per esempio, ripensa lo spazio necessario per “coltivare” gamberetti: in laboratorio. L’azienda sta lavorando per mettere in vendita carne di crostaceo prodotta da cellule in vasca. Attraverso un processo innocuo per gli animali, le cellule crescono in una soluzione nutritiva da cui verrebbe fuori, dopo alcune settimane, una sorta di trito di gamberi crudi. Apollo Aquaculture Group ha scelto di allevare pesce su otto piani di un palazzo, mentre Sky Greens, stando al suo sito web, è «la prima fattoria verticale al mondo a basse emissioni di carbonio e a funzionamento idraulico».

La rivoluzione agricola di Singapore porta con sé una serie di dilemmi etici che hanno a che fare con il modo in cui pensiamo la produzione e il consumo di cibo. A trainare questa trasformazione, secondo Christine Gould della Thought for food foundation, sono soprattutto le persone più giovani della generazione Z. «Sono alla ricerca di nuovi concetti alimentari» ha detto durante un evento sul cibo nel 2022. «Vogliono che il cibo sia più accessibile ma che sia prodotto eticamente e in modo sicuro sia per i consumatori che per l’ambiente». E se gli allevamenti di carne e pesce non contribuiscono a scongiurarne il consumo, gli esigui spazi in cui vengono realizzati ne impediscono una sovrapproduzione massiva.

Singapore è sensibile agli effetti del cambiamento antropogenico del clima, e così i suoi terreni arabili. Anche per questo le coltivazioni al chiuso sono un’opportunità. «Possiamo controllare tutto, dai nutrienti alla temperatura, in tutte le fasi», ha detto Jaslin Koh di Sustenir Agriculture, «il controllo di questi elementi ci permette di coltivare i migliori prodotti possibili».

Le sue verdure crescono su lunghe mensole illuminate dalla luce artificiale, in un palazzo della zona nord della città. Il profilo di Singapore come hub finanziario torna utile, perché il settore sta attraendo generosi finanziamenti da parte di venture capital e investitori stranieri. È il caso della singaporiana Temasek e dell’australiana Grok Ventures, che supportano, tra le altre cose, la ricerca e lo sviluppo di Sustenir Agriculture. Il governo ha l’obiettivo è quello di passare dall’attuale 10 per cento di cibo prodotto internamente al 30 per cento entro il 2030. C’è chi ha osservato che questo conglomerato grigio di palazzi a vetri e quartier generali non abbia l’aspetto adatto per una rivoluzione agricola. Eppure la minaccia di fattori esogeni, come i conflitti e le epidemie globali che possano interrompere la fornitura di cibo, ha reso la città un grande laboratorio tecnologico. Singapore ha avuto l’ardire di portare l’agricoltura, letteralmente, a un altro livello.

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