In fondo l'uovo di Colombo sarebbe far funzionare il servizio sanitario nazionale, un tempo vanto italiano, per garantire davvero il diritto costituzionale alla salute. Così da evitare, come succede in Lombardia e come Domani ha raccontato nell'edizione di ieri, che strutture private accreditate approfittino delle inefficienze del pubblico per varare servizi tagliacode a pagamento. Non più solo per visite specialistiche ma anche per situazioni emergenziali. Quanto successo al Policlinico San Marco di Zingonia (Bergamo), di proprietà del gruppo San Donato, dove sborsando 149 euro si ha il diritto a un'assistenza immediata per casi di codici bianco e verde, rischia di fare scuola vista la situazione disastrosa dei pronto soccorso, grosso modo in tutta la penisola.

Nella capitale ha lanciato l'allarme Antonio Magi, presidente dell'Ordine dei medici, chirurghi e odontoiatri: «A Ferragosto si moltiplicano le preoccupazioni di quanti lavorano nei pronto soccorso dove la carenza di personale, medico e non, è pari a meno 10 per cento. Se poi questo si intreccia con le ferie, la situazione assume toni drammatici, con un aumento del 15 per cento di accessi, la maggior parte dei quali costituita da over 65».

E commenta: «Il pronto soccorso è il luogo principale dove salvare vite in tempi brevi, gli operatori lavorano in prima linea e non possono svolgere attività libero professionale». Aggiunge infine: «È necessario investire sulla sanità. È ciò che hanno fatto gli altri Paesi, talmente bene da portarci via i nostri colleghi».

Non va meglio a Firenze, dove i rappresentanti sindacali del Careggi vaticinano un «collasso imminente» se non verranno fatte assunzioni al più presto nel sistema emergenza-urgenza e sono preoccupati per «il deterioramento della qualità dell'assistenza ai pazienti».

All'estremo sud, all'Umberto I di Siracusa, «turni estenuanti e situazione insostenibile», tanto che si cerca di reclutare dottori pensionati disposti a rientrare in servizio. L'elenco potrebbe continuare all'infinito e dipingere un quadro ben noto a chi si trova a dover ricorrere ai pronto soccorso un po' dappertutto in Italia: le ore di attesa sono la norma.

Le reazioni

Non è stupito dalla svolta privatistica il presidente nazionale dell'ordine dei medici Filippo Anelli: «La china è questa e quanto successo è una ulteriore tappa di avvicinamento al sistema assicurativo di tipo americano che l'Italia ha avviato da tempo». La sua è un'analisi che parte da lontano: «Il sistema sanitario nazionale nato nel 1978 dopo un lungo dibattito aveva l'obiettivo di rendere tutte le persone uguali davanti alla salute. Il sogno di Tina Anselmi e dei colleghi era la realizzazione di principi repubblicani inderogabili. Si voleva dare a chiunque le stesso possibilità di cura grazie alla leva fiscale.

A poco poco si è derogato a questo assunto e si è preso come riferimento invece il principio economico per cui il servizio sanitario assicura ciò che i governi mettono a disposizione come risorse. La conseguenza più drammatica è il tetto al finanziamento per il personale fissato nel 2004.

Le Regioni non possono spendere più della cifra fissata ormai 20 anni fa. Si è bloccato il turn over, mancano medici di base e specialisti, le liste di attesa di sono allungate. Si è scelto il metodo fordista in uso nelle ferriere di inizio '900 di chiedere ai medici di lavorare di più essendo di meno. E un cittadino se non ha i soldi aspetta, se li ha cerca altre soluzioni». Risultato: «Almeno 40 miliardi, un terzo del totale della spesa sanitaria, vengono pagati direttamente dagli italiani oltre alla fiscalità generale.

Durante il Covid ci eravamo ripromessi un cambio di atteggiamento ma una svolta non c'è stata». Anelli coltiva ancora una speranza: «C'è tempo per tornare indietro. Con il Censis stiamo lavorando a un rapporto su cosa significhi investire in sanità in termini economici e sociali. Dovremmo prendere esempio da Francia e Germania che destinano alla salute circa il 10 per cento del Pil contro il nostro 6,4».

Una ricetta la propone anche Andrea Crisanti, microbiologo e ora senatore del Pd: «Ci sono tre cose da fare. Primo, farla finita con il malcostume dei dirigenti sanitari nominati dai partiti. Secondo, far funzionare le case di comunità, dovrebbero sorgerne 1300 secondo i piani del Pnrr ma non sappiamo chi metterci. Terzo, rivedere il rapporto pubblico-privato. Al riguardo, dopo le ferie, presenterò un disegno di legge. Non è possibile che il privato non paghi le infrastrutture fornita dal pubblico e grazie alle quali lucra i suoi guadagni. Sarebbe come se Italo sfruttasse la rete ferroviaria senza pagare l'uso delle tratte. Dunque bisogna trasferire parte di questi costi sui privati. Inoltre non è possibile che medici part-time facciano più interventi nel pubblico che nel privato, talvolta persino con un rapporto di uno a dieci. Storture la cui correzione non è più rimandabile».

Il Partito democratico è la formazione rimasta più scossa dal salto di qualità dei privati che ora, causa le inefficienze del pubblico, si sono buttati anche sul business del pronto soccorso. La senatrice Sandra Zampa si dice disposta ad arrivare al limite di revocare la convenzione a chi si permette di far saltare le code a pagamento. Invoca maggiori risorse da destinare la sistema sanitario anche, ad esempio, usando soldi del tanto aborrito (dalla maggioranza) Mes: «Se poi non lo si vuole usare mi si dica quale altro strumento si intende adottare per rimettere in carreggiata in nostro sistema sanitario. Perché così non si può andare avanti».

Infine Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, non pensa a soluzioni punitive contro i privati, piuttosto propone di puntare sulla prevenzione: «L'affollamento dei pronto soccorso è figlio della mancanza della medicina primaria. In provincia di Bergamo, la più colpita dal Covid, ci sono decine di migliaia di persone senza medico di famiglia. Ecco perché ci vuole un cambio di paradigma».

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