All’evento di Domani un dialogo sul linguaggio inclusivo nello sport. L’olimpionica Bellutti: «Donne usate per lo sportwashing». Di Trapani (Fnsi): «Serve un cambiamento culturale». Rizzitelli (Assist): «Le persone sono più avanti delle resistenze politiche». Piccioni: «Lo sport ha poco appeal su chi ne sta fuori»
Perché è importante introdurre un linguaggio inclusivo nello sport e non usare sempre e solo il maschile sovraesteso? È stato questo il tema al centro di “Chiamatemi portiera”, il panel dedicato allo sport al Domani delle donne, la due giorni di dialoghi sul potere, la libertà e la rappresentazione femminile organizzata dal nostro giornale alla Sala del Tempio di Vibia Sabina e Adriano, a Roma.
Un incontro moderato da Carmelo Leo a cui hanno partecipato Antonella Bellutti, editorialista di Domani due volte oro olimpico nel ciclismo su pista, Luisa Rizzitelli, presidente dell’associazione Assist, che tutela i diritti collettivi delle atlete di tutte le discipline sportive, il giornalista Valerio Piccioni e Vittorio Di Trapani, presidente della Federazione nazionale stampa italiana.
Declinare al femminile
Quando nel calcio femminile qualcuno suggerisce di femminilizzare “portiere” per indicare l’atleta che sta in porta, non è solo una questione di regole linguistiche ma di potere, simboli e visibilità: in realtà parliamo della mentalità che ancora oggi resiste al femminile nei ruoli tradizionalmente maschili. Ma quali effetti può avere sulla vita concreta delle atlete, nel legittimare il loro ruolo? Sono sforzi che notano e apprezzano?
«Le persone sono più avanti delle resistenze culturali e della politica, oltre che rispetto alle dirigenze sportive. Le atlete sono stanche di dover sopportare dinamiche del passato, ormai sorpassate», ha notato Rizzitelli. Anche nello sport c’è chi è contrario – come Alice Pignagnoli, che gioca nel Padova Woman, secondo cui usare “portiera” finisce per discriminare il calcio femminile – ma secondo Rizzitelli non c’è alcun rischio di un effetto boomerang per l’atleta chiamata al femminile. Né ironia né sminuimento, insomma.
Certo è che nella pallavolo prosperano le alzatrici, le palleggiatrici, le battitrici, mentre in sport come il calcio i termini declinati al femminile sono meno diffusi. Da cosa dipende questa differenza? «In effetti l’utilizzo del maschile è più forte negli sport che finora sono stati prevalentemente maschili e meno in sport come la pallavolo, con un maggior numero di tesserate donne», ha notato Piccioni.
Ma secondo il giornalista, firma di Domani e per oltre trent’anni alla Gazzetta, conta anche «la presenza nello sport di “atmosfere” molto respingenti verso le donne e le categorie più fragili: lo sport italiano tende ad avere poco appeal nei confronti di chi sta fuori da questi circuiti, di chi non pratica attività sportiva. E questo si riversa sul linguaggio, su cui bisogna ancora lavorare molto».
Giornalismo e politica
Ci sono poi le colpe del giornalismo: secondo i dati della campagna Media for fair play, l’85 per cento delle notizie sportive online parlano di uomini e solo il 27 per cento degli articoli sportivi è scritto da croniste donne. «Il gender gap nel giornalismo ha un effetto sul gender gap nella rappresentazione dello sport: le direttrici di giornali sono pochissime, con riflessi sulle scelte editoriali e su ciò che viene pubblicato», ha detto Di Trapani.
«Bisogna riaffermare il valore della grammatica e, a volte, avere il coraggio di infrangerla: in questo senso, bene fa il cittì della Nazionale femminile Andrea Soncin, che usa il femminile per parlare di sé e della squadra, di fatto includendosi in quel genere», ha aggiunto Di Trapani. «Il giornalismo deve tornare a raccontare gli sportivi e le sportive, mettere al centro le persone più dei singoli eventi. Va fatto un lavoro culturale, promuovendo buone pratiche perché non solo lo sport sia uguale per tutti, ma lo sia anche il suo racconto».
Sulle responsabilità della politica ha invece insistito Bellutti, puntando il dito contro i problemi della governance sportiva: «Il modello gestionale dello sport è ancorato a modelli maschili e paternalistici. Spesso noi donne siamo tollerate: il Cio e il Coni sanno che per motivi di immagine devono presentarsi come inclusivi. Ma, più in generale, il fatto che Giorgia Meloni voglia essere chiamata “il” presidente testimonia che molte donne raggiungono il potere se si adeguano a quel modello, senza volerlo cambiare davvero».
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