Lo sport femminile in Italia è una lunga cronaca di soprusi eleganti, camuffati da regole di mercato, e di applausi concessi come mance. In questa commedia amara, da venticinque anni, una voce non si è mai spenta: quella di Luisa Rizzitelli, presidente di Assist, l’associazione che pretende dignità per le atlete. Non favori, non elemosine: diritti. «Abbiamo bisogno di una parità vera», scandisce con il tono di chi non mendica, ma intima.

La sua partita è contro un avversario subdolo: l’abitudine. Perché in Italia, quando le donne vincono, si parla di «sorpresa». Un trucco lessicale che serve a coprire decenni di disattenzione. Rizzitelli smonta il teatrino con esempi che bruciano: l’allenatore della Nazionale maschile di pallamano a 7.500 euro al mese, l’allenatrice della femminile a 7.500 all’anno. Stessi doveri, stessi orari, stessa divisa: stipendi da due galassie diverse.

«Il volley è l’eccezione», concede, ma non perché illuminati abbiano deciso di premiare le donne. È il mercato che lo impone: sponsor, pubblico, risultati. Altrove, il sistema si regge su cavilli e contratti da co.co.co. che non riconoscono nemmeno la maternità. Atlete costrette a scegliere tra carriera e figli, come se la vita fosse una colpa.

Assist, fondata da Rizzitelli nel 2000 insieme a Manù Benelli, Eva Ceccatelli, Sara Pasquale e Vanessa Vizziello, non è un club di anime belle: è un fischio costante, un fastidio per i potenti dello sport che preferirebbero il silenzio. Una sentinella che ricorda che lo sport, specchio del paese, si mostra ancora un volto antico, maschile, sordo. Lei non arretra: perché sa che dietro ogni medaglia femminile non c’è una favola, ma un conto salato che ancora oggi pagano soltanto le donne.

Le azzurre del volley hanno raggiunto gli ottavi di finale ai Mondiali in corso in Thailandia: secondo lei, al di là del risultato sportivo, quanto spazio è stato dato a questa notizia rispetto a eventi analoghi maschili? E quanto incide la disparità nei premi, nei contratti e nella copertura mediatica?

«Il volley è uno dei pochi sport in cui la visibilità mediatica è pari a quella maschile. Non è un regalo, ma conseguenza di un movimento che ha regalato un oro olimpico e rappresenta da tempo un’eccellenza. Nella federazione, i due terzi dei tesserati sono donne e nelle scuole la pallavolo resta lo sport più praticato dalle studentesse. L’appeal quindi c’è, e dare visibilità a queste campionesse conviene».

In che senso conviene?

«Dal punto di vista economico e di mercato. La pallavolo ha appeal e le leghe femminili e maschili attirano molti sponsor. Non è una questione di diritto alla parità, ma di valutazione economica».

Ogni volta che le nazionali femminili arrivano a grandi risultati, si parla di “sorpresa”. Non è riduttivo?

«C’è ancora una narrazione che sottostima i risultati femminili sia dal punto di vista tecnico che del prestigio. Lo fa per due ragioni: la minore visibilità causa scarsa conoscenza dello sport femminile e parlare di sorpresa “assolve” la mancanza di attenzione verso le atlete».

Come giudica la copertura dei media nei confronti dello sport femminile oggi rispetto a 10 o 20 anni fa?

«Sicuramente migliore, ma ancora insufficiente. Servirebbe una vera parità in termini di minuti di copertura, almeno per i grandi eventi. Vent’anni fa la situazione era disastrosa, oggi le cose sono migliorate».

Che ruolo hanno i social: aiutano a bilanciare o rischiano di rafforzare stereotipi?

«I social, se usati per misoginia e odio, rafforzano stereotipi. Ma non sono solo gli hater a essere responsabili: se il messaggio parte già viziato dai media o dalle istituzioni sportive, l’assist negativo sarà forte e difficile da scardinare».

Le disparità contrattuali e di visibilità restano evidenti. Quali sono i nodi principali che impediscono pari dignità?

«Distinguo tra disparità privata (tra club e atleta) e federale (premi, diarie, borse di studio per le Nazionali). Nel primo caso, il mercato può spiegare differenze di stipendio. Nel secondo, dove i soldi sono pubblici, le differenze non sono accettabili».

Può fare un esempio?

«Due anni fa Assist sollevò una questione con la federazione italiana pallamano: l’allenatore della Nazionale maschile prendeva 7.500 euro al mese, l’allenatrice della nazionale femminile 7.500 all’anno. Se fosse un contratto privato, niente da dire. Ma con soldi pubblici, no».

Il professionismo è stato un passo avanti, quali sono i prossimi traguardi?

«Il professionismo per ora, per quanto riguarda le donne, è stato raggiunto solo dalle calciatrici, avendo la Federcalcio riconosciuto lo status alle proprie atlete. Altre discipline hanno ottenuto solo il riconoscimento del lavoro sportivo sopra i 5.000 euro, un passo a metà. La riforma dello sport (varata con il d. lgs. 36/2021 e successivi correttivi, entrata pienamente in vigore dal 1° luglio 2023, ndr) ha commesso due errori cui bisogna porre rimedio: ha obbligato le società sportive datrici di lavoro a fare contratti co.co.co o con partita Iva quando invece atlete e atleti di alto livello svolgono di fatto un lavoro del tutto assimilabile a un lavoro subordinato; il secondo errore è aver lasciato le associazioni sportive senza aiuti sufficienti per vivere questo passaggio epocale. Molte realtà sono in difficoltà e va studiato un modo per sostenere l'emersione dal lavoro nero che per anni ha "sporcato" le relazioni tra atlet* e club».

Interessante questo uso che lei fa del neutro. Mi porta a una domanda su donne transgender e competizioni femminili. Parigi 2024, il ministro Abodi in riferimento all'incontro tra Imane Khelif e Angela Carini disse: “Bisogna affrontare il tema degli atleti transgender, non è equa competizione”. Tralasciando che Khelif non è una persona transgender. Un'opinione sulla partecipazione delle donne transgender nelle competizioni femminili? Un dibattito aperto, ricordiamo che in Italia Valentina Petrillo è stata la prima atleta paralimpica transgender ad aver gareggiato alle Paralimpiadi.

«L’associazione crede nell’inclusività e la promuoviamo in ogni modo. Crediamo nelle regole stabilite dal CIO e riteniamo che le persone transgender, una volta rispettati i vincoli e i parametri dati dal Comitato olimpico internazionale, abbiano pieno diritto a partecipare alle gare. Troviamo l’ondata di transfobia violenta, ingiustificata e bruttissima: nel momento in cui si rispettano quei parametri, è assolutamente sacrosanto che una persona transgender possa gareggiare».

Molte atlete subiscono molestie, discriminazioni o pressioni psicologiche nei club e nelle federazioni. Secondo lei, quali strumenti reali mancano per contrastare la violenza di genere nello sport?

«Con la riforma abbiamo avuto l'ingresso nelle associazioni sportive della figura del SafeGuard Officer, una sorta di sentinella che vigili su casi di violenza e situazioni a rischio, ma anche questo non basta. Servono fondi per consentire alle associazioni di ricevere una formazione adeguata e contribuire a un cambiamento culturale necessario. A Cremona il comune ha finanziato un corso di formazione grazie al quale le associazioni sportive del territorio stanno facendo gratuitamente lezione con docenti preparati e di grande esperienza. CONI e Federazioni dovrebbero fare altrettanto».

Si parla spesso di pari opportunità nello sport, ma la violenza di genere resta un problema sommerso. Come possono il governo e il CONI intervenire efficacemente?

«Come dicevo sopra: servono fondi per consentire alle associazioni di insegnare a dirigenti, allenatori/allenatrici e anche, perché no, alle famiglie, cosa è il fenomeno della violenza, da dove nasce e come lo si affronta. Non si possono lasciare le associazioni da sole in questo: abbiamo dato loro l'obbligo di dotarsi di persone competenti, ma a zero euro e senza alcun fondo per la formazione su questi temi. Le racconto una storia: una squadra di basket di A2 ha avuto come protagonista un allenatore che ha “rimproverato” la sua atleta dandole un mal rovescio sui capelli molto vistoso, abbiamo protestato perché ci sembrava assolutamente disdicevole e violento e invece è stato difeso sia dall’atleta stessa, sia dai genitori. Se non insegni in un contesto quali sono i limiti e i confini che non si possono varcare nel rapporto e nella relazione tra una dirigente, allenatore, atleta farai fatica a cambiare le cose attraverso regole o una sentinella che più delle volte non ha formazione che dovrebbe avere».

Ancora oggi molte atlete temono di perdere contratti o opportunità professionali in caso di maternità. Quali tutele concrete mancano e come si possono garantire pari diritti a chi resta incinta?

«Le tutele sono quelle dei contratti previsti, quindi del tutto inadeguate. Il Fondo maternità per le atlete dello stato garantisce mille euro per dodici mesi, ma è chiaro che per un'atleta professionista una tutela simile è scarsa e crea situazioni che ben conosciamo. Noi chiederemo al ministro Abodi e al presidente del CONI Bonfiglio di affrontare una volta per tutte questo tema, indicando una linea alle Federazioni, pur nel rispetto della loro autonomia. Essere autonomi non può voler dire negare il diritto costituzionale di tutela della maternità».

Esistono differenze evidenti tra sport maschili e femminili anche sul fronte della maternità: secondo lei, cosa servirebbe per rendere la carriera sportiva compatibile con la maternità senza penalizzazioni?

«Strumenti di tutela e strumenti culturali. Va creato un accordo tra le parti in causa perché i contratti siano "congelati" fino alla ripresa dell'atleta e che le società sportive siano partecipi al recupero dell'atleta. Ovviamente a sostenere questo processo potrebbe esserci ad esempio una Cassa o un Fondo, come avviene in altre professioni. In ogni caso, Assist non crede nelle bacchette magiche e vorremmo studiare le soluzioni con tutte le parti, con serietà e in sedi istituzionali. La maternità delle atlete non va gestita come un fatto privato, ma come un tema collettivo di grande valore e responsabilità».

Questo è un governo maschile che porta avanti politiche maschili, anche se ha una premier donna. Dal punto di vista dello sport che ne pensa?

«I governi sono stati tutti estremamente molto timidi nel dare allo sport quella spinta che doveva avere nello sviluppo delle tutele adeguate dei lavoratori sportivi e delle lavoratrici sportive. E questo governo in questo momento è fermo e noi ci aspettiamo che il ministro Abodi dimostri concretamente la volontà di creare qualcosa che possa sostenere questo cambiamento, ma che possa anche affrontare temi di discriminazioni nelle pari opportunità dello sport, nella prevenzione delle molestie e degli abusi e infine nella tutela della maternità. Sono tutti temi che dovrebbe essere in grado di affrontare già lo sport: invece su questo Coni e federazione nazionale sono state molto lente e sorde. Il compito del governo e del ministro però può essere attivo perché hanno un dovere di vigilanza rispetto quello che accade nello sport. Ci aspettiamo che questo accada».

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