Il caso del gesuita Marko Rupnik, accusato di aver commesso abusi di potere, spirituali e sessuali, per oltre 30 anni, segna la fine del mito dei gesuiti come ordine religioso in grado di gestire anche le crisi più gravi nelle quali si è trovato coinvolto, direttamente o indirettamente, mettendo al primo posto la salvaguardia dell’interesse superiore della chiesa intesa sia come istituzione che come comunità di fedeli.

Nella vicenda del religioso di origine slovena, artista e teologo di fama mondiale, insignito di riconoscimenti dagli atenei cattolici di mezzo mondo, i cui mosaici decorano santuari, chiese e edifici religiosi, spicca infatti un dato: il senso di impunità che ha caratterizzato i suoi comportamenti, l’assoluta indifferenza di fronte alle misure restrittive impostegli dai superiori della Compagnia di Gesù.

Un atteggiamento fondato sulla presunta certezza di godere della protezione del papa, gesuita anche lui e estimatore di Rupnik, o di altri settori importanti del Vaticano e della chiesa? In molti lo hanno pensato, soprattutto in considerazione delle omissioni e dei ritardi con i quali le istituzioni ecclesiali hanno agito contro di lui.

Sta di fatto, tuttavia, che ora di fronte al «reiterato rifiuto di Marko Rupnik di obbedire» alle richieste del suo stesso ordine, «di fare i conti con il proprio passato e di dare un segnale chiaro alle numerose persone lese che testimoniavano contro di lui», non è rimasta che una «sola soluzione: la dimissione dalla Compagnia di Gesù».

Così si è espresso in un comunicato ufficiale della Compagnia, padre Johan Verschueren, delegato del Superiore generale, padre Arturo Sosa.

La storia naturalmente non finisce qua, Rupnik infatti, fino ad ora, non ha parlato in sua difesa, mentre resta da chiarire quale sarà la sorte del Centro Aletti, di cui lo stesso Rupnik è stato direttore per molti anni e che, fra le altre attività, promuove l’arte del religioso in tutto il mondo.

Il Centro fa parte della missione dei gesuiti e della diocesi di Roma, e bisognerà vedere se potrà continuare ad esistere o se invece verrà chiuso, come sarebbe logico attendersi.

Ma quello di Rupnik non è l’unico caso che ha travolto in tempi recenti la Compagnia di Gesù: ha destato scalpore infatti, fra Spagna e America Latina, la pubblicazione postuma sul quotidiano El Pais, del diario di un gesuita spagnolo, Alfonso Pedrajas, morto di cancro nel 2009, nel quale il religioso mandato in missione prima in Perù e in Ecuador, quindi in Bolivia, racconta decenni di abusi sessuali commessi sui ragazzi minorenni – 85 le vittime di cui racconta di aver abusato – che frequentavano il “Colegio Juan XXIII”, nella città di Cochabamba, nel centro della Bolivia, istituto di cui padre Pedrajas era direttore.

Il caso ha portato alla luce una realtà fatta di insabbiamenti, coperture e omertà, e naturalmente ha fatto da detonatore per nuove denunce nei confronti di altri sacerdoti.

Ma soprattutto ne è scaturita una crisi diplomatica fra la Bolivia e la Santa sede.

Per il papa in uscita dal Gemelli dopo l’ultimo intervento chirurgico, si tratta di colpi duri da incassare; ormai è evidente, infatti, che silenzi e complicità non hanno conosciuto eccezioni, gli stessi gesuiti escono anzi con macchie difficili da cancellare dallo scandalo abusi. Non solo: la vicenda, nel suo insieme, continua a minare la credibilità della Chiesa mentre le misure interne prese dal Vaticano, pur se severe sulla carta, vengono applicate ancora solo in minima parte dal corpo vivo dell’istituzione; il cammino da fare è isomma ancora lungo.

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