I tagli in legge di Bilancio, la gestione del 41 bis (il carcere duro), gli organici carenti, ma anche le divisioni all’interno del dipartimento. Sono alcune delle questioni che il nuovo capo dell’amministrazione penitenziaria dovrà affrontare.

E anche se la decisione non è stata ancora comunicata dal governo Meloni e dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, diverse fonti del mondo penitenziario indicano il magistrato Giovanni Russo come nuovo capo del Dap. «Le voci si rincorrono, ma non c’è nulla di deciso», dice un esponente del governo.

Il magistrato ha una lunga esperienza, iniziata negli anni Ottanta, nella procura calabrese di Castrovillari prima di trasferirsi da pubblico ministero a Napoli. Una carriera che lo ha portato alla Dna, la Direzione nazionale antimafia, dove è diventato sostituto procuratore prima di assumere l’incarico di aggiunto, nel 2016, per decisione del plenum del Consiglio superiore della magistratura. Per alcuni mesi è stato anche reggente della Dna quando l’ex capo Federico Cafiero De Raho, oggi deputato del M5s, è andato in pensione. Il magistrato è stato in corsa, insieme al magistrato calabrese Nicola Gratteri, per la guida della Direzione, ma il Csm ha scelto un altro magistrato napoletano: Giovanni Melillo.

Russo è fratello di Paolo, ex deputato di Forza Italia, e ora responsabile per il Mezzogiorno del Terzo polo di Matteo Renzi e Carlo Calenda.

Gli altri nomi

L’attuale capo del Dap è Carlo Renoldi, scelto dall’allora ministra della Giustizia, Marta Cartabia, e nominato lo scorso marzo. Da tempo Lega e Fratelli d’Italia chiedono un avvicendamento. In queste settimane sono stati diversi i nomi circolati: da Nicola Gratteri a Luigi Riello, ma anche l’ipotesi, più remota, della riconferma di Renoldi.

Gli agenti penitenziari sono da anni sotto organico, mancano circa 18mila unità e l’ultima legge di Bilancio, ora al vaglio del parlamento, prevede anche tagli agli stanziamenti (dieci milioni nel 2023, quindici nel 2024, undici dal 2025, in tutto 36 milioni di euro).

La prima bozza della manovra conteneva un riferimento alla ripianificazione dei posti di servizio, dicitura scomparsa dopo le proteste delle sigle sindacali, ora le riduzioni di spesa si chiamano «riorganizzazione e l’incremento dell’efficienza dei servizi degli istituti penitenziari».

Un gioco di parole per nascondere la tagliola dei fondi destinati agli istituti di pena dove si consuma ogni anno una strage. Dall’inizio dell’anno ci sono stati 80 suicidi tra i detenuti e 5 tra gli agenti penitenziari.

La stessa presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, nel suo discorso di insediamento aveva segnalato il dramma dei suicidi nelle carceri, «è indegno di una nazione civile, come indegne sono spesso le condizioni di lavoro degli agenti di polizia penitenziaria».

Ma non ci sono solo i tagli. Tante le questioni da affrontare, a partire dalla gestione delle sospensioni degli agenti della polizia penitenziaria coinvolti nelle indagini per tortura. Non solo il processo che si è aperto a Santa Maria Capua Vetere, ma anche la recente indagine della procura di Bari.

Inchieste che rendono necessario il funzionamento della videosorveglianza in tutte le carceri italiane per monitorare quanto accade negli istituti di pena, estensione sollecitata anche dall’attuale ministro.

«Queste sono le questioni più urgenti, ma il nuovo capo del dipartimento, Russo o un altro, dovrà mettere ordine all’interno del Dap, decidere cosa fare con il 41 bis che viene smantellato giorno dopo giorno, soprattutto deve dotarsi di una squadra per operare trasformazioni strutturali altrimenti sarà una nomina senza effetti che non produrrà cambiamenti, l’ennesimo capriccio dei partiti», dice un alto funzionario del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.

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