Sono bastati il pareggio, un punto e un gol per la vittoria del terzo scudetto del Napoli, arrivata fuori casa nella notte del 4 maggio, alle 22.37 a Udine. È finita 1 a 1: prima Sandi Lovric, al tredicesimo minuto, aveva cercato di rovinare la festa. Poi, nel secondo tempo, al 52esimo minuto, ecco il pareggio decisivo di Victor Osimhen. È stato l’atto decisivo di una stagione vissuta sempre con un piede sull’acceleratore.

Ma dove stava correndo questo Napoli? Cosa aveva da andare così di fretta? Ce lo si chiedeva un po’ tutti all’inizio di questa stagione calcistica così anomala, spaccata nel mezzo causa un Mondiale da giocare d’inverno e da vedere ancora una volta come spettatori disinteressati. E fra tutte le anomalie, quella più grande era proprio la squadra in maglia azzurra che viaggiava a un ritmo fuori scala. La mitica «velocità smodata» con cui Mel Brooks fece la parodia dell’accelerazione impressa da Ian Solo al Millennium Falcon quando doveva sottrarsi alle astronavi dell’Impero.

Perché proprio questo stava facendo la squadra di Luciano Spalletti: viaggiare a velocità smodata, sia sui campi da gioco che in classifica. Dopo un inizio buono ma non ancora impressionante (due vittorie e due pareggi nelle prime quattro giornate di campionato, una media conforme a quella di altre aspiranti allo scudetto) ha cominciato a frantumare tutti gli ostacoli che le si sono parati innanzi, sia in Italia che in Europa.

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Dritta fino alla sosta forzata, mentre le avversarie dietro tardavano a capire che quei pazzi scatenati andavano presi sul serio, che non erano una pattuglia d’incoscienti dissipartori d’energie ma anzi sapevano perfettamente cosa stavano facendo. Magari avevano pensato ai precedenti, alle volte in cui le squadre di Spalletti erano partite sparate ma poi erano rimaste imbrigliate da un’inerzia di ritorno. Del resto, giusto nel campionato precedente, il Napoli aveva vinto dieci delle prime undici partite, ma poi si era afflosciato e le aveva buscate in casa da Empoli e Spezia prima della sosta di fine anno. Non immaginavano, le avversarie, che stavolta fosse tutta un’altra storia. E che quel gruppo di calciatori in maglia azzurra era stato forgiato in un modo che lo ha reso alieno.

Non di un altro mondo, ma di un altro campionato. Che non era quello passato, il 2021-2022, dove si andava di passo e se qualcuna delle concorrenti allungava appena, pareva si fermasse poi da aspettare il resto del gruppo. No, il Napoli ha fatto un campionato di testa vero, da leader che la concorrenza vuole ammazzarla. Come sempre dovrebbe essere, con impeto cannibale.

Sicché, quando le avversarie hanno capito di non poter contare sulla sua desistenza, che dovevano correre con un passo estraneo alle loro gambre, era tardissimo nonostante fosse ancora prestissimo. Il campionato era già finito a metà novembre, quando le giornate disputate erano soltanto 15 su 38 e ci si è dovuti fermare per i Mondiali. E quando i giochi sono ripresi è stata soltanto una lunga passerella verso il terzo scudetto. La squadra sola al comando che doveva preoccuparsi soltanto di raggiungere il traguardo.

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La gioiosa macchina da calcio

Come osservare il funzionamento di una macchina che produce calcio, un sistema che funziona a regime pieno e in cui le parti sono intercambiabili. Per quasi tutta la stagione il Napoli ha suscitato questa impressione di superbo assemblaggio a partire da una nuda idea di gioco. Cosa che risulta così fuori luogo in questo passaggio storico del calcio italiano. Dove, chi più chi meno, eleva allo statuto di arte la capacità di improvvisare e aggiustare in corso d’opera errori anche marchiani di pianificazione.

E invece il Napoli messo in campo da Spalletti ma disegnato dal presidente Aurelio De Laurentiis e dal direttore sportivo Cristiano Giuntoli è stato un esempio di programmazione fin dai primi passi mossi nell’estate 2022. Che invero non era parsa un’estate facile, e anzi a un certo punto sembrava segnata da una tendenza al ridimensionamento.

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Perché mentre le altre candidate allo scudetto aggiungevano, il Napoli toglieva. Via Kalidou Koulibaly e Fabian Ruiz in cambio di denaro sonante, via Dries Mertens e Lorenzo Insigne lasciati andare alla scadenza del contratto, era stato un esodo di colonne su cui aveva poggiato la squadra competitiva degli ultimi anni, ma erano state anche rinunce sentimentalmente sanguinose. E vaglielo a spiegare alla gente che quelli arrivati in sostituzione, il georgiano dal cognome impronunciabile e il sudcoreano che invece si chiama come metà e passa dei suoi connazionali, rischiavano di essere pure più forti dei partenti. 

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C’era il rischio che fosse fatica sprecata, tentare di spiegare. Anche perché la stagione precedente si era chiusa nel segno della grande occasione mancata. Pareva che lo scudetto fosse possibile nel 2021-2022 e invece il Napoli era uscito dalla lotta in anticipo, nonostante il ritmo al ralenti della corsa di testa.

Questa desistenza un po’ troppo precoce era stata imputata a Luciano Spalletti, che del resto è un tipo divisivo di suo. L’uomo ha l’arte drammatica nelle vene. E in un ambiente qual è quello del calcio che fa del banalogio il registro comunicativo privilegiato, ogni volta che lui apre bocca si ha l’impressione che un pezzo di carmelobenismo faccia intrusione come fosse un attacco hacker.

Cosa che, tuttavia, ha una controindicazione: finché i risultati del campo ti danno ragione puoi anche issarti sulla montagna a pronunciare il discorso biblico, ma se invece alimenti illusioni e poi rimani fuori troppo presto dalla corsa, rischi che il tuo istrionismo sia scambiato per superbia. Una cazzimma mal riposta. C’è stato un passaggio nella scorsa stagione in cui per Spalletti le cose non andavano per il meglio. E rimane nell’aneddotica la storia della vecchia Panda che gli era stata rubata, e che gli ultras si erano impegnati a fargli riavere purché lui ci montasse su e se ne tornasse nella natia Certaldo. Altri tempi. Adesso Spalletti è un profeta nella terra che, quanto a divinità calcistiche, non può averne altre al di fuori di Lui.

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La stagione dei dopo Diego 

Diego Armando Maradona è ovunque. Anche in questa Napoli punteggiata dalle immagini dei calciatori protagonisti del terzo scudetto. E c’è stato nel mese di aprile, dove pareva che la squadra aliena si fosse adeguata al resto del campionato prendendo il passo delle altre. Che avesse pure trovato la sua kriptonite nel Milan, capace di cacciare il Napoli fuori dalla Champions League e di incrinarne l’autostima col clamoroso 4-0 in trasferta nella gara di campionato.

Poi è arrivata la vittoria giusta, quella che serviva per mettere a tacere ogni pensiero oscuro: l’1-0 sul campo della Juventus, un atto di forza come nei giorni migliori della velocità smodata che ha ristabilito l’ordine naturale delle cose. A quel punto tutto è diventato un problema di matematica. Nessun problema per una città che festeggia almeno da febbraio, mettendo da parte pure la scaramanzia e con la sola incertezza su quale dovesse essere il weekend giusto per celebrare l’ufficialità dell’esito.

Tutto quanto avvenuto, e tutto quanto avverrà, sarà sempre stato nel segno di Diego. Nonostante questo terzo scudetto giunga nel segno di una squadra completamente diversa nella concezione, priva di un leader individuale perché il suo leader è l’intelligenza collettiva.

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La presenza di Maradona sta nei prodigiosi incastri di questa stagione che consegna l’ultimo dono alla sua grandezza: la certezza che la sua magia non se ne sia andata assieme a lui, e che le due squadre per le quali ha dato tutto sui campi da gioco potessero farcela anche senza di lui ma accompagnate dalla presenza del suo mito. E in questo senso c’è da conservarlo in eterno come un numero magico, quel “3”. Il numero perfetto che suggella una stagione irripetibile.

La stagione calcistica 2022-2023. Segnata a dicembre dalla vittoria mondiale dell’Argentina. La terza nella sua storia, la prima dopo una lunga attesa che un altro numero 10 da leggenda tornasse a sollevare la Coppa del mondo come aveva fatto El Pibe de Oro verso il cielo di Città del Messico nel 1986.

Pareva non dovesse succedere più e invece è successo. E pareva non dovesse succedere più di vedere uno scudetto a Napoli. Che invece arriva, anch’esso il terzo dopo che i primi due erano stati vinti con Diego in campo. Per la storia sarà stata soltanto una coincidenza. Per chi crede nei segni, è stato il tocco estremo della Mano de D10S.

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