Alla fine non resterà altro da dirsi che «por qué?». Il rapporto fra José Mourinho e la Roma potrebbe finire molto male e resta da capire come siamo arrivati a questo punto, come sia stato possibile nonostante il grande consenso popolare che in queste due stagioni ha fatto della Roma un fenomeno a sé nel panorama del calcio italiano. Nonostante il ritorno di trofei internazionali in bacheca. Uno sicuro, il secondo possibile. Se mercoledì sera a Budapest, José batterà il Siviglia e farà doppietta, vincendo anche l’Europa League dopo la Conference della stagione scorsa, l’interrogativo si farà ancora più stringente. Con la famiglia Friedkin, i proprietari americani del club, sempre più messi all’angolo. In difficoltà a far valere le proprie buone ragioni, persino a dirle, perché in questa vicenda più che mai la comunicazione è tutto. E su questo terreno José Mourinho è imbattibile, anche se vince e se ne va. Così si torna al punto di partenza, qualcuno si troverà il cerino acceso in mano e toccherà dire: «Why?».

Da dove siamo partiti?

Il punto preciso in cui questo cortocircuito inizia è di complicata definizione. Forse non avrebbe nemmeno senso cercarlo. Se anche si individuasse l’origine di tutto, si tratterebbe di un falso indizio. La verità è che tutto comincia proprio dal punto di partenza, nel momento stesso in cui la Roma annuncia l’ingaggio del portoghese, quando ancora la stagione 2020-21 non è terminata e sulla panchina siede un suo connazionale, Paulo Fonseca. Non il massimo dello stile, ma è un dettaglio. In quel momento parte la trama che giunge fino a oggi. Quando porti sulla panchina José Mourinho, devi sapere cosa ti aspetta. Se tutto va bene, è merito suo, potrai godere al massimo d’una gloria di riflesso. Ma alla minima sbavatura, i meriti vengono immediatamente separati dai motivi che l’hanno prodotta: parte la ricerca del soggetto a cui imputarla. Alla proprietà, alla dirigenza tocca allora sperare che quei soggetti siano altrove, gli arbitri per esempio, oppure qualche potere occulto che torna sempre comodo come arma retorica, più raramente la sorte, che però rimane un argomento volgare, l’uomo di Setúbal lo disdegna. In tutto questo sperare, c’è anche lo scongiuro verso l’ipotesi che invece il bersaglio punti proprio da questa parte, nella propria direzione, la proprietà, la società, con gli argomenti di volta in volta estratti dal paniere: lo scarso peso politico, la parsimonia nella spesa in sede di calciomercato, l’insufficiente protezione della squadra.

Portare Mourinho su una panchina significa questo, mettere in conto la salvaguardia dell’Ego come missione primaria. Perché l’uomo è impiegato innanzitutto di sé medesimo, del suo esorbitante profilo pubblico ch’è il principale asset personale, ciò che davvero vende a chi lo ingaggia. La guida della squadra, le scelte tattiche, i risultati del campo, sono epifenomeni del fenomeno principale: l’ego mourinhano che catalizza la scena e assorbe ogni attenzione. Questo mette in campo, oggettivamente tanto, non può essere disconosciuto nemmeno dai detrattori più convinti. Ma altrettanto chiede, in termini di risorse da utilizzare in campo, e una piena sintonia da parte della società. Laddove questo equilibrio sia carente, è fatale che il Gioco dell’Ego faccia finire la società sotto accusa. 

Mai sfidare The Mentalist

L’uomo sa quali temi trattare, come argomentare, qual è il tono giusto in ogni circostanza. Nel calcio è The Mentalist per eccellenza, come magistralmente descritto da Emiliano Battazzi nel suo libro Calcio liquido. L’evoluzione tattica della Serie A. Il segreto di Mourinho sta soprattutto nella capacità di allenare la mente dei suoi calciatori, di riprogrammarli come se si trattasse di installare un nuovo codice informatico e cambiarne la chiave di accesso, da lui soltanto detenuta, of course. In questo senso, sostiene Battazzi nel suo libro, la partita emblematica è la semifinale di Champions League giocata dall’Inter a Barcellona nel 2010. Quando ridotta in dieci per oltre un’ora a causa dell’espulsione di Thiago Motta, la squadra riuscì a reggere e assicurarsi la qualificazione, non soltanto perché Mourinho aveva trovato la disponibilità a fare il terzino da parte di un calciatore del calibro di Eto’o, ma soprattutto perché i suoi giocatori si erano dimostrati pronti ad affrontare anche le situazioni di gioco più disagevoli. Come se le avessero apprese in un maniacale percorso di training.

Se dunque l’uomo è capace di allenare la mente d’altri, in vista degli impegni più severi, figurarsi quanto sia bravo a programmare sé stesso quando c’è da affrontare il rumore dei nemici. Ch’è tanto più fragoroso e esaltante se arriva dall’interno, rendendo la scena shakespeariana. Non conviene a nessuno sfidarlo su quel terreno e sarebbe prudente non offrirgli l’opportunità di usare quell’arma. La userà. Specialmente quando è consapevole di avere il popolo dalla sua parte. Lo sa bene chi conosce il mondo interista, una comunità ancora pienamente in amore con lui nonostante i tredici anni di distanza e il modo squallido con cui il rapporto si concluse: ricordate la scena di lui che assieme al suo agente Jorge Mendes, fuori dal Bernabéu, montava su una limousine inviata dal Real Madrid mentre i calciatori nerazzurri festeggiavano negli spogliatoi la Champions League appena vinta? E l’ha imparato chi vive il mondo romanista, galvanizzato dalla sua presenza al punto da garantire due stagioni di tutto esaurito sugli spalti dell’Olimpico. Il suo Ego, il suo carisma, sono i veri asset. Chi è davvero pronto per sfidarli?

Il rischio della pallottizzazione

In verità, i Friedkin potrebbero rispondere che loro non hanno mai sfidato nessuno. Che è soltanto un gioco delle parti, ordinaria dialettica fra una società e un allenatore come avviene ovunque, in più periodi della stagione. E poiché sanno che con quello lì la sfida dialettica è terreno minato, rispondono col mutismo alle provocazioni ripetute. Quanto ancora può durare?

Se poi Mourinho – lui, non la Roma – dovesse battere mercoledì sera il Siviglia del detestatissimo ex direttore sportivo Monchi, chi rimarrebbe su piazza a schierarsi dalla parte della società, contro di lui? È forte la paura che con la coppa fra le mani si ripeta la scena di Madrid 2010, con una limousine del Paris Saint Germain ferma lì, col motore acceso. A quel punto, o lo lasci andare e perdi comunque la faccia, da qualunque parte la rigiri, oppure lo trattieni cercando di dargli tutto ciò che chiede. Un vasto programma.

Per i proprietari americani il rischio dell’impopolarità avanza a passi spediti unitamente all’incubo della pallottizzazione. Il loro predecessore, americano pure lui, vide l’avventura romana trasformarsi progressivamente in uno scontro interminabile con la piazza. La nuova famiglia proprietaria ha mostrato dall’inizio ben altro stile, ma adesso si trova su un piano inclinato. Avviare l’inarrestabile discesa è un attimo, l’hanno capito. Deve averlo compreso anche Francesco Totti, che da giorni semina dubbi riguardo alla continuazione dell’esperienza romanista del portoghese e ha preso le difese della proprietà.

Dismessa l’arte, l’ex capitano giallorosso continua a cercare una parte e farebbe di tutto per rientrare nella Roma. Che ciò significhi anche recitare da anti-Mourinho in questa guerra fatta di droni verbali e contraeree di mutismo, sarebbe davvero una prospettiva elettrizzante per gli spettatori neutrali. Roba da vecchi film giapponesi, tipo King Kong contro Godzilla. E da che parte si schiererebbe il popolo giallorosso? Bella domanda. Di sicuro ne resterebbe in piedi solo uno. Chiunque sia, dubitiamo che sia un bene per la Roma.

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