Primo maggio 2021. Francesco D’Alcamo fa il rider a Palermo: «Il nostro lavoro è stato importante solo nelle parole, nei fatti non va come dovrebbe andare, ci sono sempre i soliti problemi. I pagamenti, come veniamo trattati, anche le precauzioni per il Covid. Glovo si è limitato a darci una mascherina e una bottiglietta piccola di gel in tutto il periodo della pandemia». Dal primo lockdown, a marzo del 2020, è passato più di un anno: «Ci hanno fatto un applauso a una manifestazione qualche settimana fa, ma le persone ci trattano come sempre». D’Alcamo ha cominciato il suo lavoro poco prima che scoppiasse la pandemia; oggi, nonostante sia la Festa dei Lavoratori continuerà le consegne: «È sabato e il sistema ci incentiva a lavorare sempre». Mentre si parla di smart working e riaperture, ci sono loro, le categorie essenziali che non hanno lavorato da casa un giorno: la loro mansione non lo avrebbe permesso. Si va dall’infermiere alla cassiera, ci sono anche il rider e il bracciante, una lista lunga e perlopiù sconosciuta che arriva fino all’operaio della rete elettrica, che si cala nelle botole per garantire che non ci siano guasti. Nessuno li tratta più come eroi: «Siamo tornati quelli di prima» dice Vincenzo Capuozzo, infermiere dell’ospedale San Martino di Genova, «ma la verità è che siamo ancora in guerra».

Roma deserta

Alcuni non sono mai stati considerati. «Guardi, questa è la centralina elettrica dell’ospedale San Camillo - racconta Luciano Pontieri mostrando una foto in tuta da lavoro con un pollice in su - quando è scoppiato il Covid-19, l’Acea ha stabilito che facessimo controlli straordinari negli ospedali di Roma: li ho fatti tutti. Per fortuna non ci sono mai state emergenze».

Luciano Pontieri alla centralina elettrica dell'ospedale San Camillo di Roma

Della prima ondata del Covid ricorda le strade di Roma deserta: «Vedi il vuoto, ti viene la malinconia. Io l’ho sentita questa cosa, chi è stato a casa forse non si è reso conto. Un’atmosfera inverosimile, Roma deserta, una situazione mai vista». Della loro professione nessuno ha mai parlato: «Ma siamo stati in prima linea. Come le forze dell’ordine: noi ci siamo stati sempre». Il lavoro a marzo si è intensificato: «L’azienda mi ha dato una macchina per spostarmi, da solo raggiungevo le cabine e trovavo uno o due colleghi equipaggiati con tutto quello che serve per la pandemia, guanti, mascherine, tute monouso. Eravamo motivati a fare di più». La paura c’era sempre: «Ero l’unico a uscire per andare a lavorare, mia moglie è bidella, mio figlio all’università. Ero l’unico sottoposto a rischio e potevo esserlo anche per loro. Ma non sono mancato un giorno, così come i colleghi: viviamo in un mondo egoista, ma di fronte a queste emergenze forse esce il lato migliore di noi». Un collega ha avuto il Covid a dicembre 2020: «Io e altri ci siamo messi in quarantena, abbiamo avuto paura, tanta davvero. Recentemente ho perso una zia e un cugino: sono andato a un funerale con due bare. Io mi preoccupo. Ancora oggi, specialmente adesso che hanno riaperto tutto».

Non fermarsi un giorno

Il lockdown è stato un problema per chi è rimasto chiuso a casa ma anche per chi ha continuato a uscire per lavoro, come Sadio Sissokho, bracciante di Borgo Mezzanone in provincia di Foggia, parte della Lega dei braccianti fondata da Aboubakar Soumahoro: «Non ci siamo fermati un giorno. C’è il lockdown, non c’è il lockdown, per noi le cose non sono mai cambiate, sono sempre le stesse». Ogni mattina ha continuato a prendere la bicicletta per raggiungere l’azienda agricola: «In quindici minuti arrivo al campo, coltiviamo asparagi e pomodori, l’azienda non è molto grande, siamo in otto». La pandemia non ha cambiato il loro orario, che si adatta solo al sorgere del sole: «In inverno sei-sette ore, adesso cominciamo alle 6 di mattina e finiamo alle quattro o alle cinque di pomeriggio». Le mascherine «le usiamo solo quando siamo a casa». Viene dal Senegal e vive in Italia da 12 anni: «Non mi sono mai spostato dalla Puglia, tranne quando sono tornato in Senegal», l’ultima volta a settembre, per rivedere le sue due bambine che vanno alle scuole elementari: «Ho comprato il biglietto ma continuavano a spostarlo, poi ne ho preso un altro con un’altra compagnia, alla fine ce l’ho fatta». La sua vita è peggiorata "da quando chiudono tutto non si capisce più niente. Per fortuna però non mi sono ammalato».

Rimanere «così»

D’Alcamo lì per lì ha deciso di sospendere le consegne «per una ventina di giorni, ero preoccupato per i miei figli. Ma poi avevo necessità di lavorare e ho deciso di smettere di vederli per sicurezza. Non li ho visti per 40 giorni». Le corse, racconta, «sono aumentate». Dietro la porta non poteva sapere chi trovava: «Anche i clienti si spaventavano e cercavano di stare lontani, ma c’era anche chi ti avvisava di essere positivo al Covid. Non te lo dicono prima e tu rimani così… avevamo la mascherina, ma una cosa è essere preparati e una cosa è scoprirlo sul momento. Quando è successo sono andato a fare dei tamponi per controllare, per fortuna non mi sono mai ammalato». L’azienda, accusa, «se ne è fregata altamente» e ormai non si aspetta (CHI) più niente: «Quello che dovevano fare lo dovevano fare prima».

Cassiere e anziani

«Ricordo i carrelli pieni di legumi, pasta e pelati. Lievito e farina che mancavano, file indescrivibili». Patrizia Formiconi, cassiera della Coop del quartiere Laurentino di Roma, madre divorziata di un figlio di 23 anni, figlia di due genitori di più di 80 anni e con un fratello con gravi disabilità, ha continuato a lavorare anche durante il lockdown: «È stata molto dura». L’anno scorso però «ho capito che facevamo parte di una fetta di lavoro importante». Quando le cose «cominciano a vacillare – spiega - non si danno più per scontate e si dà il giusto peso, adesso si sta tornando alla normalità e i clienti hanno ripreso a trattarci come prima». Chi lavora nei supermercati è una categoria a rischio: «Ma la gente non è sempre in grado o ha voglia di capire. Ma tu ci devi stare». Il plexiglas, i guanti, il disinfettante. Si preoccupava: «Tutte cose nuove all’inizio. Cerchi sempre di stare attenta, ma lavori sei ore e non ci pensi sempre a non toccarti il viso, poteva capitare un momento di distrazione». Non si è ammalata: «Non so se sono stata fortunata o attenta o se doveva andare così, la gente è sempre tanta e sono in cassa, passano tutti da lì». E il suo lavoro è stato anche bello, dice: «Il nostro lavoro ha aiutato noi, perché dovevamo farci forza, e gli altri, anche per permettergli di parlare e di uscire di casa. Soprattutto gli anziani e le persone sole. Facevano tanta fila solo per comprare il latte o il pane, per riuscire a vedere qualcuno». Adesso ricominciano i litigi, chi mette fretta: «I clienti non sono più carini». Per lei «la memoria degli eventi è necessaria, non si può tornare a tutto com’era prima. È limitativo arrabbiarsi perché non riaprono le piscine, anche se è giusto». E chiede solo una cosa: «Non dimentichiamo quello che è stato l’anno scorso, non focalizziamoci a quello che sta accadendo adesso».

«Non siamo eroi»

Capuozzo ricorda come tutto è cominciato per lui: «La prima volta che è capitato un caso di Covid in pronto soccorso, il 6 marzo 2020, attaccavo alle 7 di mattina. Ci hanno chiamato i colleghi della notte e ci hanno detto che avevano trovato un Covid positivo». Da subito hanno dovuto organizzarsi con due percorsi: «Per i Covid e per “i puliti” come chiamiamo chi ha altre patologie». Arrivavano i pazienti, messi male: «Anche giovani, 40, 50 anni. Cercavamo di mandarli in reparto, quando non c’erano posti restavano da noi». Un’emergenza che tornava a ondate. La prima e la seconda: «Che è stata peggio». La terza «a dire la verità non l’abbiamo avvertita, tra la seconda e la terza il calo è stato leggerissimo». I turni si prolungavano fino a 12 ore o bisognava fare le doppie notti: «Capitava che i colleghi si ammalavano, dovevamo coprirli. Sentivamo la responsabilità di farlo».

Vincenzo Capuozzo, infermiere dell'ospedale San Martino di Genova

Sua moglie, infermiera come lui, ha avuto il coronavirus. Ha dovuto andare da sua suocera con la bambina di due anni per evitare di contagiarsi: «Quando tornavo a casa avevo paura soprattutto per lei». Poi si è vaccinato: «Non subito, ma a gennaio. Prima ho voluto fare il sierologico per essere sicuro di non essermi già ammalato». Della sua condizione lavorativa non si è mai lamentato: «Tra di noi ci davamo forza e coraggio, infermieri, medici, barellieri, non c’era differenza, tutti sulla stessa barca». All’esterno la categoria infermieristica «è stata sempre emarginata e sottovalutata, quelli che mettono le padelle o le flebo. Con la pandemia si è capito che siamo molto di più».

Le scene che ricorda sono tante, e chi non c’è passato «no, non si può rendere conto». Nella prima ondata si è trovato di fronte un uomo di cinquant’anni che non respirava e hanno dovuto intubarlo: «Gli ho fatto chiamare sua moglie, ma non riusciva a parlarle, è scoppiato a piangere. Mi ha passato il telefono, non ce l’ho fatta neanche io, le ho solo detto “le passo il medico”. Mi sono scese due lacrime. Spero che sia sopravvissuto».

Adesso «siamo passati dalle stelle alle stalle. Siamo quelli che diffondono il virus, o quelli che non si voglio vaccinare nelle notizie di cronaca». Però non si lamenta: «Il male lo abbiamo sempre vissuto, il bene solo in quel periodo». Capuozzo non cerca complimenti: «Ho fatto il mio lavoro, quello che sto ancora facendo» e nel giorno della festa dei lavoratori si fa un solo augurio: «Il rinnovo del contratto nazionale, è scaduto nel 2018».

© Riproduzione riservata