Se lo faccia perché imbeccato da altri o solo per noia, non so. So che da anni, dopo aver offerto al mondo l’elenco ossessivo e compiaciuto dei suoi ammazzati (con la sega, con la pistola, con la garrota, quanti rantoli prima di crepare, quanti si pisciavano addosso, quanti piangevano, pregavano, vomitavano), s’è reso conto che non aveva più nulla da raccontare. La sua pornografia del male s’era consumata con quegli ottanta omicidi, qualcosa occorreva aggiungere per non restare solo con i propri fantasmi.

Ed ecco, ventisette anni dopo l’inizio della sua collaborazione, una serie di nuove improbabili rivelazioni: tanto, qualche giornalista da sedurre suggerendogli lo scoop della sua vita, qualche vanità da titillare nel mesto circo dell’informazione italiana, si trova sempre.

Verrebbe da dire: tutto qui. Solo palle raccontate male, che avrebbe saputo svelare il più umile dei cronisti, uno di quelli che i loro tre euro al pezzo se li devono guadagnare facendo magari una telefonata al procuratore di Caltanissetta: «Scusi dottore, lo sa che Avola ha rivelazioni incredibili da farvi su via D’Amelio?». 

E il procuratore avrebbe risposto che, sì, lo sapeva, avendo interrogato il signor Avola mesi fa per arrivare alla conclusione che è un millantatore.

Nella breve nota rilasciata un paio di giorni fa, il procuratore Paci per la verità aggiunge che dubita sia della veridicità che della spontaneità, come dire: Avola è un bugiardo, certo, ma forse non sono bugie «spontanee», forse qualcuno gliele ha suggerite.

Forse. Restano le palle. Grossolane, compiaciute, irriverenti, patetiche ma degne di ricevere gli onori letterari nel libro di Santoro. Peccato. Perché se proprio quella telefonata alla procura di Caltanissetta non la si voleva fare (umiliarsi a chiedere conferma ad un procuratore della repubblica sull’adamantina verità che ci è stata rivelata da un killer seriale? Giammai!), sarebbe bastato leggersi un poco di carte, e magari scoprire che il signor Avola, fermato a un controllo di polizia a Catania con un braccio ingessato il 17 luglio, era alquanto improbabile che il 18 luglio fosse a Palermo a imbottire – lui medesimo, con il braccio buono – la 126 destinata ad ammazzare il giudice Borsellino.

Sarebbe apparso quasi comico il racconto del suddetto Avola che, travestito da poliziotto (ma con un braccio ingessato) era lì anch il 19 luglio, in via D’Amelio, a prendersi cura degli ultimi istanti di vita di Borsellino. E sarebbe risultata grottesca, oltre che giornalisticamente ridicola, la spiegazione di Avola sull’uomo che Spatuzza, nel garage in cui si prepara la 126, non riconosce come un affiliato a Cosa Nostra ipotizzando che fosse un “forestiero”, forse uno dei servizi: ma quali servizi e servizi, detta alla Storia il signor Avola: quell’uomo ero io!

Il punto non è il pessimo giornalismo che s’è fatto su Avola. Il punto è che della psicologia contorta di questi signori ti accorgi solo se ti tocca occupartene per tutta la vita. E ti rendi conto che per taluni di loro, una volta finito il grande slam (la violenza, la ricchezza, il potere, l’impunità), resta solo il gusto della recita. Sconfitti ma non arresi al proprio destino.

Quando l’Avola scrisse il suo libretto sugli ottanta morti ammazzati, dicendo le stesse cose che adesso detta a Santoro, e raccontando la sua epica versione dei fatti anche sull’omicidio di Giuseppe Fava e sul mancato omicidio del sottoscritto, mi arrivò voce dal suo avvocato che ci fosse rimasto molto male per il fatto che non lo avessi pubblicamente ringraziato: un ingrato, questo Claudio Fava.

Pensai che un po’ ci faceva, e lasciai perdere. Poi, negli anni, mi resi conto che per quelli come lui era inconcepibile che non si prestasse fede, riconoscenza ed attenzione alle loro fantasie. Me lo fece capire definitivamente Nitto Santapaola quando lo incrociai per puro caso nel carcere di Opera.

Faccio una premessa. Non mi arruolo tra quelli che amano la legge del taglione, che pensano che i mafiosi debbano marcire in carcere per il dolore che hanno generosamente distribuito.

Non amo il regime del 41 bis, che considero un ripiego e una dolente necessità di uno Stato che non riesce in altro modo a difendersi dai criminali. Non amo nemmeno l’ergastolo ostativo perchè considero il “fine pena mai” un’aberrazione umana non così distante dalla pena di morte. Dunque non mi fregava, e non mi frega nulla d’incontrare Santapaola e di vederlo galeotto dietro le sbarre.

Lo incontrai per caso, nel corso di una visita della Commissione Antimafia nelle carceri di massima sicurezza. Passavo davanti a una cella senza sapere chi vi fosse ospitato e sentii su di me uno sguardo incuriosito ed eccitato. Era quello di Nitto Santapaola.

Si tirò su dalla brandina, s’avvicino lentamente alle sbarre, si muoveva lento e a fatica come un vecchio che ha perso il senso dello spazio attorno a sé. Lo riconobbi, e rimasi immobile: andarmene mi sarebbe sembrato un gesto di viltà o di disprezzo, e quei sentimenti non mi appartenevano. Insomma, si fece avanti, si aggrappò alle sbarre e cominciò a parlarmi con voce da chiesa. Il senso delle parole era semplice: non l’ho ammazzato io tuo padre. «Quando ci incontreremo in cielo, lui mi stringerà la mano – mi disse - perché lui sa che sono innocente».

Non risposi nulla, non chiesi, non replicai. Alla fine gli augurai che potesse andare davvero così: e me ne andai.

Poi mi sono chiesto: perché? Perché un uomo sepolto dagli ergastoli, condannato con prove inoppugnabili d’aver comandato la morte di Giuseppe Fava in nome e per conto d’altri, accusato di aver procurato la morte di altre centinaia di uomini, di aver fatto strangolare, decapitare, torturare, fare a pezzi a volte per una semplice occhiata storta: perché dedicarmi quel teatrino? A che gli serviva? Il mio perdono? Il mio incantesimo? La mia reazione? A cosa dovevo quella recita?

Non era per me. Era per se stesso. Mentire, travisare, rivelare: è un modo per restare in vita quando la vita si è chiusa su di te senza rimedio. Nitto Santapaola seppellito dagli ergastoli. Maurizio Avola seppellito dall’oblio. Gli ottanta morti ammazzati puoi contarli e raccontarli una, due, dieci volte: alla fine nessuno arriccerà più il naso per il disgusto o lo stupore. Serve aggiungere qualcosa. Che magari ti procuri quell’ultimo brivido di malinconica, malata notorietà: c’ero io in via D’amelio, ho visto il giudice, l’ho guardato negli occhi, poi mi sono acceso una sigaretta e ho fatto un cenno a chi teneva il dito sul pulsante del detonatore. Ciak, si gira. Tanto qualcuno disposto a crederci si trova sempre.

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