Adesso le tessere del mosaico combaciano. Gli indagati per il crollo del Ponte Morandi parlano e straparlano al telefono, i magistrati ascoltano e fanno trascrivere. Ogni cosa è illuminata. Fino al crollo del viadotto genovese (14 agosto 2018) la società Autostrade per l'Italia (Aspi) perseguiva sistematicamente la massimizzazione degli utili e dei dividendi per gli azionisti di controllo, la famiglia Benetton, comprimendo le spese di manutenzione anche in presenza del rischio, cinicamente calcolato, che qualcuno ci lasciasse la pelle.

Questa solare verità è stata finora raccontata solo da pochi giornalisti, di quelli che secondo la ministra delle Infrastrutture Paola De Micheli dovrebbero "vergognarsi" di quello che scrivono.

Ogni cosa è illuminata

Da oggi l'equivoco è finito. La notizia che Aspi da molti anni risparmia sulle manutenzioni, mettendo a rischio la vita delle persone, allo scopo di arricchire i suoi manager e i suoi azionisti, è scritta nero su bianco nell'ordinanza di custodia cautelare che mercoledì ha portato agli arresti domiciliari l'ex amministratore delegato Giovanni Castellucci, al vertice dal 2006 al 2019, insieme all'ex capo delle manutenzioni di Aspi Michele Donferri e all'ex direttore centrale operazioni Paolo Berti.

E la notizia non è contenuta nelle ipotesi accusatorie ma nelle parole intercettate ai massimi vertici del gruppo attualmente in carica: in primo luogo il plenipotenziario della famiglia Benetton, Gianni Mion, l'uomo che sta trattando con il governo Conte sulla sorte della concessionaria autostradale; poi il presidente di Atlantia Fabio Cerchiai e l'amministratore delegato Carlo Bertazzo, l'amministratore delegato di Aspi Roberto Tomasi, il successore di Castellucci.

Ma Tomasi è anche l'uomo che - essendo indagato con Castellucci, Berti e Donferri per la vicenda delle barriere fonoassorbenti pericolose - va dai magistrati genovesi e spiattella tutti i comportamenti quantomeno discutibili dei tre arrestati: cose di cui dimostra di essere stato testimone in anni precedenti alla caduta del Morandi.

Tomasi era il capo di Berti e Donferri, che però, lo racconta lui stesso ai magistrati, lo scavalcano mettendosi d'accordo direttamente con Castellucci. Dice Tomasi di aver provato a dire ai due che c'era qualcosa che non andava con quelle barriere fonoassorbenti nelle autostrade della Liguria ma loro «mi dissero anche in termini un po' coloriti che lo cosa era di loro competenza e di non fare il primo della classe».

La versione di Donferri, intercettato è invero colorita: «Tomasi ha chiamato me e l'ho mandato a fare in culo, Tomasi ha chiamato Berti e l'ha mandato a fare in culo, Tomasi è andato da Castellucci e Castellucci l'ha mandato a fare in culo». In questa signorile contesa il Tomasi che si fa pazientemente trattare così è condirettore generale e consigliere d'amministrazione di Aspi. Sarebbe il numero due di Castellucci, e forse grazie alla tempra mostrata in circostanze del genere si guadagna nel gennaio 2019 la nomina ad amministratore delegato, decisa da Castellucci, dopo il crollo del Morandi.

Ma prima di tornare a Mion e Bertazzo dobbiamo fare un passo indietro e spostarci qualche centinaio di chilometri più a sud. Il 28 luglio 2013 sulla autostrada Napoli-Bari, sul viadotto Acqualonga, pochi chilometri da Avellino, un autobus che riporta da San Giovanni Rotondo a Napoli un gruppo di fedeli di padre Pio, sfonda un guard rail di cemento, tipo new jersey, e vola di sotto: muoiono in 40.

Per anni il processo si svolge nel silenzio quasi totale dei media. Eppure l'inchiesta dà, anni prima del crollo del Morandi, indicazioni tanto allarmanti quanto bellamente ignorate dall'allora capo della vigilanza autostradale Mauro Coletta (oggi indagato per il Morandi) e dall'allora ministro Graziano Delrio, impegnato pancia a terra a strappare a Bruxelles l'autorizzazione ad allungare la concessione ai Benetton.

40 morti per 20mila euro

I periti della procura di Avellino scoprono che le barriere new jersey sono solo appoggiate al piano stradale perché i cavi d'acciaio che dovrebbero trattenerle in caso di urto (i cosiddetti tirafondi) sono marci da anni e nessuno si è mai occupato nemmeno di dargli un'occhiata per 25 anni. Il tribunale ha calcolato quei 40 sono morti a causa di un risparmio di circa 20mila euro.

Per questo il procuratore di Avellino Rosario Cantelmo il 10 ottobre 2018, quando il crollo del Morandi aveva fatto accendere l'attenzione dei media per quel processo, ha chiesto 10 anni di carcere per Castellucci e per il direttore generale di Autostrade Riccardo Mollo.

Il principe del foro Franco Coppi ha ottenuto l'assoluzione dei due big convincendo il giudice monocratico Luigi Buono che loro non ne potevano sapere niente di un pezzo di cemento e di un cavo di acciaio ad Avellino. Che dunque la colpa era dei sottoposti. Così viene condannato a cinque anni e sei mesi l'allora direttore di quel tronco autostradale. Indovinate chi era: Paolo Berti.

Appena appresa la notizia della condanna, l'11 gennaio 2019, Berti telefona all'amico e collega Donferri e sfoga la sua rabbia. Non gli va giù l'assoluzione di Castellucci. E non si contiene, magari immaginando che lui e Donferri, indagati anche per il Morandi, siano ascoltati dai magistrati. Donferri gli dice che ha un messaggio di Castellucci per lui: «Ti aiuterà per tutta la vita».

Berti non si calma, ce l'ha con Castellucci: «Guarda, è uno che meritava una botta di matto, ma una botta di matto dove io mi alzavo la mattina, andavo ad Avellino e dicevo la verità, così l'ammazzavo credimi, era l'unica soddisfazione che avevo». Donferri replica: «Ma non ti cambiava niente Paolo...». Paolo soppesa: «E lo so non mi cambiava niente però vaffanculo». Berti è ancora più chiaro con la moglie che chiama anche lei a botta calda l'11 gennaio: «Mollo sapeva benissimo che c'era quella barriera dava quel problema lì, e quindi non ha fatto un cazzo».

Vedremo quanto queste parole peseranno nel processo d'appello in corso ad Avellino. Sicuramente chiariscono definitivamente come funzionava Autostrade per l'Italia. E infatti la procura di Avellino, per capire il mistero di 40 persone fatte morire per risparmiare 20mila euro, è andata a studiarsi in tempi non sospetti il famigerato Pef, il piano economico e finanziario che Aspi è storicamente abituata a scrivere d'amore e d'accordo con il ministero delle Infrastrutture e che garantisce pazzeschi aumenti automatici dei pedaggi.

Notate bene: sono andati i magistrati a vedere, non i ministri competenti che pure dovrebbero avere il Pef sempre aperto sulla scrivania. Ebbene, dal 2008 (anno in cui Castellucci ottenne dal governo Berlusconi la scandalosa convenzione approvata come legge del parlamento) al 2015 (ultimo bilancio conosciuto prima del rinvio a giudizio), Aspi ha incassato ai caselli 27,3 miliardi di pedaggi e ha distribuito agli azionisti 4,7 miliardi di dividendi. Gli incassi previsti nel Pef erano 22,8 miliardi e il traffico negli otto anni è stato inferiore al previsto.

Come ha fatto dunque la concessionaria a sfilare dalle tasche degli automobilisti 4,5 miliardi più del previsto? Grazie a un aumento dei pedaggi del 30 per cento assicurato ai Benetton con pazienza, anno per anno, da tutti i ministri che si sono succeduti al ministero di Porta Pia in quegli anni: Altero Matteoli, Corrado Passera, Maurizio Lupi, Graziano Delrio. Notate il dettaglio: 4,5 miliardi in più, per aumenti di pedaggio che avrebbero dovuto finanziare miglioramenti e manutenzione delle autostrade, 4,7 miliardi di dividendi succhiati da Benetton e soci. Ecco dove sono finiti gli aumenti di pedaggi.

La scandalosa novità di oggi è che i Mion, i Bertazzo, i Tomasi, quelli che fino a oggi hanno fatto gli offesi se solo gli si chiedevano spiegazioni sui miliardi che Atlantia si è intascata sottraendoli alle manutenzioni, lo hanno sempre saputo, ovviamente, e non hanno pudore di parlarne a mo' di cazzeggio, come se questa tragica vicenda non fosse costata 83 vite. Il 30 gennaio 2020, mentre è in corso il "serrato confronto" con il governo Conte sul futuro della concessione, Tomasi chiama il direttore finanziario Alberto Milvio e si fa fare il riepilogo.

Milvio gli spiega che Aspi ha distribuito dal 1999 (anno della privatizzazione) al 2019 dividendi per 13 miliardi circa, alla media di oltre 600 milioni all'anno. Nel nuovo Pef scritto da Aspi con De Micheli, e finito sotto la luce dei riflettori solo grazie all'intervento del presidente uscente dell'Authority dei trasporti Andrea Camanzi, i dividendi previsti fino al 2038 sono 21 miliardi, pari a 1,16 miliardi all'anno, una cifra molto superiore alla somma di investimenti e manutenzioni del periodo.

Peggio di prima

Quella che si sta (o stava) preparando è dunque una estrazione forzata di profitti dalle autostrade a spese della manutenzione (o degli automobilisti) molto più efferata di quella che ha portato alle stragi di Avellino e di Genova. Gianni Mion, amministratore delegato di Edizione Holding, la cassaforte dei Benetton, parla il 2 febbraio scorso con l'amico economista Giorgio Brunetti, e tutt'e due parlano male del padrone, Gilberto Benetton, che tanto nel frattempo è morto.

Sintesi: già nel 2007 Castellucci taglia le manutenzioni per fare più utili e Gilberto Benetton (lucida mente finanziaria a giudicare dall'epitaffio che Brunetti gli ha dedicato commosso sulle colonne del Gazzettino di Venezia, ma giudicato in privato poco più che un coglione) è tutto contento.

Dice Mion: «Ti ricordi poi, poi Castellucci allora diceva 'facciamo noi!' e Gilberto eccitato perché lui guadagnava e suo fratello di più».

Brunetti conferma: «Ma veramente, allora tu eri consapevole mi ricordo, fin dall'inizio».

Insiste Mion: «Però poi il vero problema è che le manutenzioni le abbiamo fatte in calare, più passava il tempo e meno facevamo».

Brunetti si ricorda bene: «Sì, daiii...».

Mion: «Così distribuiamo più utili».

Brunetti, bocconianamente e scientificamente, conferma: «Utili...».

Mion: «Esatto. E Gilberto e tutta la famiglia erano contenti».

Quindi: Castellucci taglia le manutenzioni, i Benetton si arricchiscono, e Mion, Brunetti, Bertazzo, Tomasi e chissà quanti altri, sapevano e tacevano. Per 12 anni. Muti anche dopo 83 morti.

 

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