La regione Puglia è diventata il luogo preferito di aziende, broker, intermediari, del centro e del nord, e anche dello stesso sud Italia, per smaltire gli scarti del sistema industriale italiano. La conferma ulteriore arriva da una recente inchiesta della distrettuale antimafia di Lecce. I carabinieri del nucleo operativo ecologico di Lecce e la guardia di finanza di Taranto hanno arrestato 13 persone; e altri trenta sono gli indagati per diversi reati. 

Luca Di Corrado, Roberto Scarcia, Davide D’Andria e Salvatore Marotta avrebbero promosso, secondo quanto scrive il giudice Alcide Maritati, «una associazione per delinquere aggravata dall’essere stata commessa al fine di realizzare un traffico di rifiuti». 

In sostanza, per gli inquirenti, sono stati movimentati ingenti quantità di rifiuti, urbani ed industriali, anche di tipo pericoloso, provenienti prevalentemente dalla Campania e dirette per lo sversamento in Puglia, in particolare nelle province di Lecce e Taranto, che «venivano smaltiti previo sversamento sul suolo con successivo tombamento, ovvero abbandonati all’interno di capannoni industriali in disuso e successivamente dati alle fiamme». Si tratta di 600 tonnellate di rifiuti di derivazione industriale, gomme, fanghi, plastiche, la gran parte delle quali provenienti dalle province di Caserta, Napoli e Salerno. Ma non soltanto.  

Il prezzario dei trafficanti

«Dobbiamo sperare che domani faccia il bonifico. Allora, una volta che è arrivato quello non è che arriva 1000 euro, arriva 30-40. E si, dipende dal programma che vuole fare». Così dialogano, compiaciuti, ignari di essere intercettati dai carabinieri, Davide D’Andria e Roberto Scarcia, mentre fanno i conti su quanto avrebbero guadagnato da «un traffico illecito dai connotati complessi, coinvolgendo produttori di rifiuti, trasportatori, intermediari, riceventi, deputati allo scarico e alla ricerca dei siti ove tombare o semplicemente sversare ed abbandonare i rifiuti», come l’ha definito il pubblico ministero, motivando la richiesta di custodia cautelare. 

«Allora, la guaina 200. Il 19.12.12 (codice di rifiuti, ndr) hai fatto 75. I barili sono 250. E poi c’è il 19.12.11 a 150.  Facciamo quattro macchine per quelli al giorno, 20 macchine. “Abbuschiamo” 60-70 carte. Mi basta un anticipo di quelli eh ... che sono soldi eh! Arriviamo a 30-40 mila euro eh. Da 40 mila, che cosa dobbiamo dare a quelli, 2 mila euro? E il resto in tasca a noi». Ecco il prezzario dei trafficanti. Le macchine sono qui intese come i camion e i tir. E ancora, così trascrivono i dialoghi degli indagati gli inquirenti pugliesi: «Otto macchine per 26 tonnellate sono 208 tonnellate. Una media di 100 euro, dai». 

Ecco, dunque, il costo economico-ambientale per avvelenare la Puglia Felix, la terra fertile compresa tra le province di Lecce e Taranto. Sempre secondo chi ha indagato, questa intercettazione è di fatto «paradigmatica», perché svela in filigrana il filo organizzativo che lega tutti i passaggi delle attività illecite in materia di rifiuti, in sostanza «attestando il coinvolgimento di più soggetti e la finalità di lucro per gli associati, oltre alla programmazione di una serie indefinita di fatti illeciti che il gruppo si propone di compiere». 

I broker della monnezza

Le indagini dell’antimafia sono partite da una informativa dei carabinieri del nucleo operativo ecologico di Torino, i quali avevano ipotizzato che la regione Puglia e, in particolare, le terre delle province di Lecce e Taranto, erano diventate la sede privilegiata per chi voleva smaltire rifiuti industriali, immediatamente, ed ovviamente a costi bassi. C’era chi come Antonio Li Muli, broker di Palermo che trattava rifiuti industriali ed energetici e che ora è finito agli arresti domiciliari, aveva una certa urgenza perché «è un problema che dovremmo risolvere entro venerdì per una situazione legata a delle penali nell'espletamento del servizio», ma, allo stesso tempo, il broker aveva bisogno di rassicurazioni «perché trattando poi la Xifonia che è una società che si occupa di raffineria, capisci che anche loro hanno bisogno di avere delle relazioni in riferimento all'impianto». Così diceva Li Muli, intercettato, rivolgendosi ai trafficanti: «per me lì la potete andare a buttare, però per me l’autorizzazione deve stare a posto». Ed è così che, tra gli altri, gli scarti delle lavorazioni di plastiche industriali, delle miscele bituminose contenenti catrame di carbone, finivano interrate senza autorizzazioni a centinaia di tonnellate in una cava a San Giorgio Jonico, nelle cave di Mottola e Crispiano, in provincia di Taranto o nei capannoni di Surbo, a Lecce. 

Quando uno di questi capannoni viene posto sotto sequestro, il 21 giugno del 2019, il broker Antonio Li Muli, colto in flagranza, racconta ai militari: «la società A.R. Srl che ha sede a Milano, con la quale collaboro, si occupa di intermediazione di rifiuti pericolosi e non, senza detenzione. Essendone il commerciale, a richiesta del potenziale cliente produttore che intende smaltire il rifiuto, eseguo una ricerca di mercato per l'individuazione di siti autorizzati». E ancora, riferisce di aver ricevuto una richiesta da parte della Tecno Servizi Srl di Monterotondo, in provincia di Roma «per il conferimento ad impianti autorizzati di rifiuto con classifica CER 19.12.12». Non soltanto. 

In Puglia, nei pressi di un capannone vicino al porto di Taranto, veniva smaltita in maniera illecita anche una partita di rifiuti proveniente dall'isola ecologica del comune di Sala Consilina, gestita dalla societa ESA Srl di Salerno. Il tutto avveniva con la mediazione del calabrese Massimiliano Ercole. Di lui gli inquirenti scrivono che si tratta di un personaggio marginale nei traffici e, pertanto, ritengono che non «sussistano le esigenze cautelari, sebbene certamente il suo passato nell'arma renda la valutazione del suo operato indubbiamente soggettivamente assai grave». 

Quel confine tra lecito e illecito

E tuttavia non sono soltanto i traffici illeciti di rifiuti industriali a preoccupare gli inquirenti pugliesi e le popolazioni locali. In provincia di Taranto, ad esempio, Domani ha già raccontato il caso della discarica, chiamata Vergine, che ha raccolto milioni di tonnellate degli scarti dell’industria italiana, farmaceutica, petrolifera, siderurgica, tessile e che adesso è pronta a riaprire, nonostante in passato sia stata sequestrata. Il caso della Vergine è approdato, di recente, anche in Parlamento, dove una interrogazione presentata dai deputati del Movimento Cinque Stelle, Gianpaolo Cassese e Giovanni Vianello, al ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, giace sulla scrivania del ministro ancora senza aver ricevuto risposta. Nell’interrogazione è stato chiesto «quali iniziative, per quanto di competenza, intenda porre in essere per garantire la tutela dell'ambiente e della salute pubblica». E, sempre in relazione alla vicenda della discarica Vergine, è appena cominciato nel tribunale di Taranto un processo per disastro ambientale. Un altro giudizio, invece, è pendente presso lo stesso tribunale della città ionica e vede coinvolti imprenditori dei rifiuti, funzionari pubblici, anche esponenti delle forze ordine e, tra gli altri, l’ex presidente della Provincia di Taranto, Martino Tamburrano, imputato di corruzione e turbativa d’asta nella vicenda dell’iter amministrativo per la concessione dell’autorizzazione all’ampliamento della discarica per rifiuti speciali situata in contrada Torre Caprarica, tra i comuni di Grottaglie e San Marzano. Così, dunque, la Puglia è diventata la terra promessa dei trafficanti di rifiuti ed il confine tra ciò che è lecito e quello che è illecito diventa sempre più labile. Lo dimostra il caso della discarica Martucci, tra Mola e Conversano, in provincia di Bari, sequestrata dalla magistratura quasi dieci anni fa, con il processo che si è concluso con le assoluzioni dei vecchi proprietari e, che, come denuncia il comitato “Chiudiamo la discarica Martucci”, ora la regione Puglia pensa di riaprire. 

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