Il problema è uno: tutti vorremmo che lui giocasse sempre così. Che fosse sempre quella specie di artista, mosca bianchissima nel circuito, che è apparso a Miami e che in due set ha escluso dal torneo Ben Shelton, l’unico suo reale competitore nell’ideale graduatoria che raggruppa chi è tecnicamente in grado di mettere in campo colpi folli. E ci è riuscito, per l’appunto, essendo più folle del suo avversario, più letale, più magico.

Se Erasmo da Rotterdam nel suo “Elogio della follia” sostiene che un essere umano raggiunge alti livelli di felicità quando la sua follia è multiforme, Lorenzo Musetti in questi giorni è strafelice. E chi ama un tennis capace di sorprendere lo è più di lui. In due ore di gioco contro l’americano (e molto di bello si era visto pure nel turno precedente contro Safiullin) ha spazzato via le nubi nerissime che da due anni pesavano sul suo talento, inducendo molti a ritenere che quel talento si fosse dissolto, distrutto dal tentativo del suo titolare di diventare qualcosa di diverso da quello che gli dei lo avevano messo in condizione di essere. Evangelicamente possiamo sostenere che si deve far passare a miglior vita il vitello grasso perché il figliol prodigo che credevamo disperso è tornato, è vivo e lotta insieme a noi.

Tanto per proseguire nella metafora evangelica è facile immaginare Jannik Sinner, il fratello calcolatore e che i nostri nonni avrebbero definito uno «con la testa sul collo», risentirsi giusto un pochino perché mentre lui ogni giorno cerca di costruire colpi di cui madre natura non l’ha dotato, ex abrupto riecco quello scavezzacollo (altra espressione un po’ agèe) di Musetti tornare da chissà dove e non solo vincere un paio di partite ma rimettere pure in scena tutto il campionario che lo aveva reso celebre: passanti impossibili, tocchi deliziosi, acrobazie. Il tutto condito da una padronanza del servizio e da una capacità di resistenza da fondo che non gli erano propri.

Lo stile è un equivoco

Nel giro di una serata Lorenzo si è posto non già come l’anti-Jannik, che sarebbe davvero troppo sotto tutti i punti di vista: ma come il tennista che si fa portavoce di un’arte antica rendendola attuale ed efficace. Esagerato per uno che ha sì battuto Carlos Alcaraz ad Amburgo due anni fa e Djokovic a Montecarlo l’anno scorso ma prima, dopo e nel mezzo è incappato in tante sconfitte spesso assurde contro giocatori che tecnicamente non sarebbero degni di stringerli i lacci delle scarpe? Forse. Ma dato che poche settimane fa si è dibattuto a lungo sulla morte del rovescio a una mano ecco che la sorte dei nostri umani discorsi si fa un paio di baffi con le punte all’insù sul modello di Vittorio Emanuele secondo; e offre al pubblico godimento una serie di passanti di rovescio giocati dal nostro in condizioni impossibili, che confutano quella tesi dimostrando non solo quanto quel rovescio sia vivo ma pure in grado di ottenere punti. E soprattutto scatenare orgasmi in chi assiste alla loro esecuzione.

Un esempio? Eccolo. Pure Matteo Berrettini, un altro redivivo, ha eseguito nel match perso ma combattuto contro sir Andy Murray (che poi si è leso due tendini della caviglia nel folle, pure lui, incontro con Machac: chissà se e quando lo rivedremo) un passante di rovescio piatto a una mano pur essendo, come direbbe un ottimo telecronista di basket commentando un tiro da tre di Steph Curry, più vicino a casa sua che al campo. Eppure guardando e paragonando i due colpi in un ralenty esasperato, eguale a quello con cui Gil De Kermadec ha reso immortali i movimenti di John McEnroe, ci si rende conto che hanno poco in comune. Uno, quello di Berrettini, ha la forza della casualità e della disperazione; l’altro, quello di Musetti, possiede una magia mistica dalle radici nascoste in qualche deserto della Mesopotamia. No, il rovescio a una mano e un tennis che non sia solo il colpire la palla a velocità siderale con i piedi sulla riga di fondo non sono morti. Magari non stanno troppo bene ma Musetti e pure Shelton ci dicono che la battaglia non è ancora perduta.

Un papà

Molto divertente che qualcuno abbia legato la spettacolare dimostrazione di talento offerta da Musetti nell’altra notte italiana con la sopravvenuta paternità. Può anche darsi che la nascita di Ludovico pochi giorni fa abbia trasmesso al nostro una gioia di cui fino a poche settimane fa pareva privo. Si tratterebbe della definitiva dimostrazione che Enzo Ferrari quando diceva che se un pilota diventa papà inizia a perdere automaticamente un secondo a giro, aveva torto. Un tennista non è un pilota, non rischia la pelle, ma di certo Musetti ha sempre trasmesso in questi anni la sensazione di essere alla ricerca di un centro di gravità permanente che gli permettesse di essere se stesso. Difficile pensare che un figlio a 22 anni rappresenti quel centro. Ma chissà: parliamo sempre di ragazzi che del mondo oltre la linea del servizio conoscono poco: se Ludovico dovesse rivelarsi quel fattore di stabilità sarà il tempo a rivelarlo. Certo è che così come non bisognava sprofondare nella depressione prima non è opportuno cedere all’entusiasmo totale adesso. Musetti perderà ancora partite, forse tante, chi lo sa. Ma ciò che conta è che quella sua arte sia riaffiorata e abbia urlato che quel tennis non è scomparso dalla circolazione. 

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