Quando lunedì scorso Silvio Berlusconi è stato dimesso dall’ospedale San Raffaele, dopo undici giorni di ricovero a causa di un’infezione da coronavirus, al suo fianco c’era una figura dal fisico e imponente e dall’aria marziale che il pubblico italiano ha imparato a conoscere negli ultimi mesi: il dottor Alberto Zangrillo, primario dell’ospedale San Raffaele e da vent’anni suo medico personale.

Con i capelli brizzolati tagliati corti e il profilo quadrato della mascella, Zangrillo somiglia più a un ufficiale delle forze speciali che a un luminare della medicina. E del militare, Zangrillo ha anche i modi diretti e la mancanza di sottigliezza diplomatica.

Una decina di anni fa, ad esempio, quando il parroco di una chiesa vicino alla sua abitazione in provincia di Lecco finì sui giornali a causa delle sue prediche contro il suo amico e paziente Berlusconi, Zangrillo si presentò in chiesa, lo interruppe durante la comunione e puntandogli il dito contro lo rimproverò: “Si vergogni, con le sue omelie lei fa terrorismo!”.

All’epoca, Zangrillo spiegò l’intemerata dicendo che come cattolico si sentiva offeso dalle parole del parroco. Ma è difficile non pensare che quell’irruzione fosse motivata anche dal profondissimo rapporto che lo lega a Silvio Berlusconi. Zangrillo è da anni la sua ombra. Lo accompagna ovunque, in Italia e all’estero. Nei momenti felici, come quando nel 2006 era con lui alla Casa Bianca e la notte lo sentiva nella stanza accanto lavorare al discorso che avrebbe dovuto tenere il giorno dopo al Congresso degli Stati Uniti; ma soprattutto in quelli difficili. Nel 2009 è stato il primo a soccorrerlo quando Berlusconi venne colpito da una statuetta lanciatagli in piazza Duomo a Milano. Il Giornale della famiglia Berlusconi lo chiamava il "first doctor”.

I due si conoscono dal 2001, quando il figlio Piersilvio Berlusconi chiese a Zangrillo se avrebbe voluto occuparsi della salute padre. Per anni, il primario del San Raffaele ha condiviso l’onere di tutelare la salute di Berlusconi con il medico siciliano Umberto Scapagnini, amico intimo di Berlusconi, deputato del Partito della Libertà e sindaco di Catania.

A differenza di Zangrillo, autorevole e riservato, Scapagnini era un medico sopra le righe. Sosteneva che Berlusconi avrebbe vissuto fino a 120 anni grazie a un intruglio di sua invenzione composto da «provitamine, antiossidanti, enzimi, immunostimolanti, amminoacidi», e poi «olio e un certo yogurt». Si trattava, assicurava, degli stessi ingredienti di cui facevano uso «i centenari sulla via della Seta e nelle oasi tra il deserto del Taklamakhan».

Oggi sembra abbastanza chiaro che la famiglia di Berlusconi volesse che del loro padre si prendesse cura un medico con un curriculum più tradizionale.

Zangrillo ha svolto per anni questo ruolo discretamente e senza apparire. Ma quando Scapagnini, ormai sempre più distante dal circolo ristretto del leader, ha iniziato a parlare delle «iniezioni e pillole» che consigliava a Berlusconi per aiutarlo nella sua attività sessuale, Zangrillo non ci ha visto più. Ospite della trasmissione radio La Zanzara, a cui sarebbe tornato molto spesso negli anni successivi confidando ai conduttori le più controverse delle sue dichiarazioni, Zangrillo ha detto che quella di Scapagnini era «pseudo medicina, medicina creativa».

La mutazione

Zangrillo invece non è un medico creativo, ma un professionista ortodosso, stimato dai suoi colleghi e con all’attivo centinaia di pubblicazioni su riviste scientifiche. Anche per questo, le tesi sul coronavirus che ha spesso ripetuto durante la pandemia hanno lasciato molti sorpresi.

La più celebre risale allo scorso 31 maggio, quando Zangrillo ha detto che «Clinicamente il nuovo coronavirus non esiste più». Gli italiani, spiegava, erano stati terrorizzati dall’allarmismo di medici e di supposti “esperti” del governo. Ma secondo gli studi effettuati al San Raffaele, proseguiva, «l'interazione virus-ospite non dà più la malattia».

Si è trattato di una dichiarazione controversa quanto enigmatica. Zangrillo, infatti, sottolineava che la letalità del virus non era diminuita a causa di una mutazione, della quale non c'erano prove. Ma se a livello microbiologico quel piccolo esserino non era cambiato, come poteva improvvisamente essere divenuto meno pericoloso?

Già il giorno dopo la dichiarazione di Zangrillo la polemica aveva superato i confini italiani. Il primo giugno, nel briefing quotidiano dell’Organizzazione mondiale della sanità, Michael Ryan, capo del programma Oms per le emergenze è sembrato rispondere indirettamente al primario del San Raffaele quando ha detto: «Dobbiamo essere estremamente attenti a non dare l'impressione che d'un tratto il virus, di sua volontà, abbia deciso di diventare meno patogeno. Non è affatto il caso».

Di fronte alle critiche, l’irruento Zangrillo è sembrato fare suo il motto “when in trouble go big”, “quando sei nei guai raddoppia”. Qualche settimana dopo, è intervenuto ad un convegno al Senato i cui gli ospiti principali erano noti negazionisti della pericolosità del virus, come Giulio Tarro e Vittorio Sgarbi. Forse per la prima volta persino Zangrillo ha avuto l’impressione di aver fatto il passo più lungo della gamba. Pochi giorni dopo ha fatto una parziale marcia indietro a proposito delle sue dichiarazioni più forti. Ha chiesto scusa, ma solo per i toni utilizzati. Sul punto centrale della sua tesi, «il virus è clinicamente morto», ha invece ribadito: «Nessuno è riuscito a contraddirmi». Su questo sono in diversi ad avere più di un dubbio.

Dal 31 maggio, il giorno della sua dichiarazione, ad oggi, più di duemila duecento persone sono morte in Italia a causa del coronavirus.

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