«Vorrei far patire alla sorella di Stefano Cucchi due volte quello che hanno fatto al fratello. Le auguro di morire patendo ogni dolore». Un messaggio d’odio totalmente gratuito rivolto su Twitter da un utente, protetto dall’anonimato social, nei confronti della senatrice Ilaria Cucchi. Ma alla decisione dell’onorevole di rivolgersi alla giustizia è seguita un’Odissea lunga sette anni che ancora prosegue.

La vicenda

A denunciare i fatti è stata la stessa senatrice con un post su Instagram in cui ha raccontato come, ancora, non sia riuscita ad ottenere giustizia per quelle parole. «Mi sono rivolta alla giustizia – ha scritto Cucchi. – Chiedevo di identificarlo. Avrei voluto delle scuse. Ma dico davvero, soprattutto avrei voluto sapere cosa muove un essere umano a scrivere questo, a provocare altro dolore a una famiglia che ha già sofferto tanto. Mi è stato detto che sarebbe stato complesso. Non avevano gli strumenti per indagare». 

Una situazione paradossale che ha costretto la senatrice a ricorrere a strumenti diversi: «Ci ho pensato da sola, con il fondamentale aiuto del mio avvocato, e di alcuni giornalisti che mi hanno accompagnato in questa faticosa ricerca. Lo abbiamo identificato (è credibile che non potesse farcela un organo dello Stato? Lasciamo stare)» commenta. Ma nemmeno l’aver identificato il responsabile del gesto la situazione è cambiata. È iniziato, anzi, un lungo percorso a ostacoli nei tribunali italiani.

Da subito è arrivata una richiesta di archiviazione, che «brucia più del tweet», presentata da una magistrata che avrebbe potuto porre immediatamente la parola fine sulla vicenda. Richiesta respinta dai giudici che hanno ordinato l’inizio del procedimento a carico dell’hater. Ma ancora la situazione non si sblocca: «Il processo doveva iniziare il 4 novembre 2024, ma la Procura aveva sbagliato il luogo in cui notificare la citazione all’imputato. Rinviato al 24 febbraio per correggere l’errore. La notifica veniva però effettuata senza rispettare i termini di legge». Nuovo rinvio, dunque, al 13 maggio: sei mesi per correggere l’errore.

Fine della storia? Tutt’altro. «Oggi – prosegue Cucchi – l’ulteriore delusione: “incompetenza territoriale”. Il Tribunale è quello di Roma, il Dentone vive in un’altra città, in un’altra regione. 7 anni e 3 udienze per trasmettere, finalmente, al Giudice competente».

Sette anni sono passati da quel 19 ottobre 2018 in cui “PieroDentone” pubblicava il suo post d’odio sui social. Sette anni in cui la giustizia non è riuscita a dare nessuna risposta. «Intanto, fiumi di odio sui social che continuano a scorrere – sottolinea la senatrice – e con loro i fiumi di dolore che provocano. Nel mezzo, l’Italia peggiore. Lo spaccato di questa storia, piccola ma credo anche grande. L’Italia che fa finta di niente».

I tempi della giustizia

Si tratta dell’ennesimo spaccato sui tempi della giustizia nel nostro paese. In Italia il tempo necessario per arrivare ad una sentenza definitiva è di oltre sette anni in sede civile mentre 6 anni e mezzo per i processi penali. E proprio i tempi così lunghi sono alla base dei numeri che mostrano come circa il 60 per cento dei procedimenti si concludano con una prescrizione proprio a causa dei tempi troppo lunghi del dibattimento nelle varie fasi di giudizio.

Gli ultimi dati della Commissione europea per l’efficienza della giustizia mostrano come l’Italia sia ampiamente al di sotto della media Ue per quanto riguarda i tempi dei processi. Nel nostro paese, infatti, un processo civile ha una durata media di 514 giorni, quasi il doppio rispetto alla media comunitaria che è di circa 290 giorni. Differenze ancora maggiori poi si registrano nei processi penali dove per arrivare a sentenza definitiva trascorrono circa 6 anni e 6 mesi (2.390 giorni) a fronte di una media europea di circa due anni (700 giorni).

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