«Ti ricordi che mi dicevi quanto gliene avevate date e quanto vi eravate divertititi a dargliene a quel tossico di merda? Ti vantavi…». Così parlava Anna Carino al marito carabiniere, Raffaele D’Alessandro, che aveva tratto in arresto quel malcapitato la notte del 15 ottobre del 2009.

Ho cercato di dimenticare quelle parole terribili che sono stata costretta ad ascoltare in una delle tante intercettazioni del processo per l’uccisione di Stefano Cucchi. Non smettevano di risuonarmi nella testa. Quel «tossico di merda» era semplicemente mio fratello. Un ragazzo sfortunato, tossicodipendente. Un ultimo. Ma era una persona vera, aveva una famiglia con tanto di mamma e papà. E una sorella.

Sono sicura che non si sono minimamente posti il problema quando si sono divertiti a picchiarlo a sangue, infliggendogli lesioni gravissime in tutto il corpo, tanto da portarlo alla morte dopo sei giorni di ospedale. E cioè che era una persona in carne e ossa che comunque aveva un’anima. Che qualcuno avrebbe pianto per lui, travolto da un dolore immenso e definitivo compagno di vita.

Quando ho letto le conversazioni intercettate tra uno dei poliziotti arrestati a Verona e la sua fidanzata mi si è raggelato il sangue. Si vantava di come avesse steso uno dei poveri disgraziati che aveva arrestato. Un ultimo tra gli ultimi senza reale identità. Nessuno avrebbe reclamato per lui. Nessuno avrebbe denunciato. Forte e fieramente arrogante del suo potere assoluto e insindacabile nei confronti di un uomo senza diritti e alla sua mercé.

Ma quello non è stato un caso isolato. Si è trattato di un sistema “operativo”, tanto che ben cinque sono gli agenti arrestati oltre a tutti gli altri coinvolti nell’inchiesta avviata dalla procura di Verona. Tante, troppe, le persone vittime di atti di tortura. Il loro denominatore comune è quello di essere semplicemente degli ultimi senza diritti e senza reale identità.

Rifiuti di stato su cui poter impunemente infierire senza dover temere alcuna conseguenza. È questa la cultura genetica di tali vicende che si ripetono senza tempo con una costante nenia che suona sempre la stessa musica: quella delle mele marce in indissolubile matrimonio con la contrapposta rivendicazione della fulgida saldezza e integrità dell’istituzione di appartenenza.

Perché affannarsi sempre in questi moniti e invocazioni quando si verificano questi comportamenti criminali? Forse per voler in un qualche modo giustificarli? In tutta sincerità non lo ho mai capito fino in fondo.

Fatto sta che io ho passato tutti questi anni, spesi nella disperata ricerca di verità e giustizia per Stefano, sentendo la continua necessità di rimarcare la mia totale e incondizionata fiducia nelle istituzioni coinvolte dall’appartenenza degli assassini di mio fratello. Uno stucchevole e insensato distinguo per il semplice motivo che anche agenti, carabinieri, magistrati eccetera eccetera, possono sbagliare e, quando accade, debbono esserne chiamati a risponderne come tutti gli altri cittadini. La legge è uguale per tutti no? Cosa c’entrano le istituzioni? Cosa è cambiato da quel 15 ottobre del 2009?

Cosa è cambiato?

Leggendo le cronache giudiziarie veronesi, mi vien da dire nulla! Comportamenti tanto ripugnanti quanto inaccettabili che sono espressione di natura violenta condita da bieco cinismo e tanta boriosa sindrome di onnipotente impunità.

Nemmeno le reazioni politiche sono cambiate. Persino negli interpreti. Il ministro della Difesa di allora, Ignazio La Russa, si affannò subito a difendere i carabinieri giurando sulla loro totale estraneità alla vicenda di quel detenuto arrestato e poi morto al Pertini. Oggi il presidente del Senato, sempre lui, Ignazio La Russa si affanna ad augurarsi e sperare che tutti i poliziotti arrestati e indagati a Verona siano un giorno dichiarati innocenti. Un bel endorsement, non c’è che dire.

La seconda carica dello stato si augura che la procura della repubblica di Verona sia incorsa in un errore colossale facendo mettere in galera dei poliziotti innocenti. No, direi proprio che nulla è cambiato. Il tifo della propaganda è sempre quello, quale che siano i ruoli e le cariche. Stiano tranquilli gli agenti arrestati! Non si debbono sentire soli. C’è chi prega per la loro innocenza. E non è certo uno qualunque.

Due cose, però sono cambiate. Lo debbo riconoscere. La prima è che i poliziotti imputati di oggi sono accusati del grave reato di tortura che ai tempi di Stefano Cucchi non c’era. Mi piace pensare che la sua morte abbia dato anche un piccolo contributo all’approvazione della legge.

C’è poco da star tranquilli su questo perché proprio la maggioranza di governo di cui è espressione il presidente La Russa si è già affannata ad annunciare la cancellazione di questo reato. Mi chiedo se, quando la voteranno, rivolgeranno un pensierino a quegli stessi agenti arrestati a Verona. Saranno assolti perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato. Innocenti, quindi.

Non c’è che dire, il presidente La Russa, mentre non portò fortuna ai carabinieri coinvolti nell’uccisione di Stefano Cucchi, risultando irrimediabilmente smentito nelle sue dichiarazioni anticipatorie giurate, questa volta magari ci prende. La seconda è che io sono sempre Ilaria Cucchi, la sorella del morto, ma sono stata eletta senatrice della Repubblica e in aula mi batterò fin che avrò forze contro l’abominio della cancellazione della legge sulla tortura.

© Riproduzione riservata