Un altro tassello si aggiunge alla storia dell’omicidio della giornalista Ilaria Alpi e del cineoperatore Miran Hrovatin, avvenuto a Mogadiscio il 20 marzo del 1994. Il mosaico ricostruito dall’inchiesta “Divieto di accesso. La storia che Ilaria e Miran non hanno potuto raccontare” di Luca Gaballo con Andrea Palladino, che sarà trasmesso venerdì 19 marzo alle alle 21:30 su Rai News 24. Il lavoro parte dalla jeep utilizzata dai due inviati in Somalia, dove si trovavano per raccontare il cruento conflitto civile scoppiato nel 1986.

Il pick-up della Toyota su quale viaggiavano Ilaria Alpi e Miran Hrovatin è sempre stato considerato una prova essenziale. L’obiettivo degli inquirenti è capire se la morte dei due giornalisti fosse stato un omicidio premeditato e ordinato da qualcuno, oppure semplicemente una rapina finita male. Ed è proprio dalla Toyota che parte anche la Commissione parlamentare d’inchiesta istituita nel 2003 e presieduta dall’allora deputato di Forza Italia Carlo Taormina.

La falsa pista

Nell’inchiesta della Rai parla Yusuf Ariri, cittadino somalo che ha affittato l’auto ai due italiani. «Viene da me un ufficiale con una lettera della commissione parlamentare – dice nel video – mi chiede di dire dove era andata a finire la macchina». Da lì parte la chiamata al proprietario di Mogadiscio e grazie a un mediatore di nome Ahmed Duale, l’auto arriva in Italia. Dopo gli esami della scientifica la Commissione parlamentare annuncia che non c’è stato nessun agguato, Alpi e Hrovatin muoiono a causa di un proiettile sparato a distanza da un kalashnikov. Nel 2006,quindi, la Commissione parlamentare d’inchiesta ha chiuso i lavori sostenendo la tesi dell’omicidio casuale.

Due anni più tardi, però, una perizia della procura di Roma ha analizzato il sangue sul sedile, non ci è voluto tanto per capire che il dna non coincide con quello dei due giornalisti. La jeep è un falso.

Per il recupero dell’auto, la Commissione ha pagato una cifra di 18.200 euro. In questo caso, l’elemento nuovo aggiunto dall’inchiesta è la figura di Ahmed Duale, un importante uomo di affari legato a Giancarlo Marocchino, l’imprenditore italiano giunto per primo sul luogo dell’agguato e già indagato per traffico d’armi. Le connessioni di Duale arrivano anche fino la fazione fondamentalista del signore della guerra Mohammed Aidid, che in quegli anni fu un attore chiave nel conflitto civile alimentando l’odio contro i caschi blu e gli occidentali. Sono delle carte della Cia dell’ottobre del 1993 a rivelare che davanti la sede della missione di pace delle Nazioni unite, Unisom, c’è una struttura della società Sitt di proprietà di Ahmed Duale e che quella società è considerata dai servizi segreti americani come «una minaccia per l’Unisom». La struttura è un deposito di armi e una base della fazione islamista di Aidid, su cui la Cia stava indagando da mesi. Nell’inchiesta parla anche l’ex generale dei paracadutisti Bruno Loi, a capo del contingente italiano fino al settembre 1993, racconta che il rapporto della Cia non è stato mai passato all’Italia e che Marocchino e il suo socio Duale lavoravano per l’esercito italiano, fino a quando scoprono un container pieno di armi all’interno della struttura della Sitt.

Bosaso

Il servizio della Rai ricostruisce anche nel dettaglio gli ultimi giorni di vita dei due italiani nel loro viaggio a Bosaso iniziato il 14 marzo del 1994. Ci sono le interviste, le riprese e parte del lavorosul traffico di armi che Ilaria sta portando avanti lì, nel nord della Somalia. A confermare il contenuto delle indagini della giornalista italiana è l’ex giudice istruttore di Venezia Felice Casson, con cui ha avuto un incontro prima di partire. «Le interessavano i rapporti tra servizi segreti, apparati statali, mondo del traffico di armi, anche collegati con il terrorismo», racconta Casson.

Il giorno in cui Alpi e Hrovatin giungono a Bosaso, il Sios Alto Tirreno invia un messaggio in cui ordina a un soggetto di nome «Jupiter» di rientrare per via di alcune «presenze anomale». Chi sono le presenze anomale? I due giornalisti? Ma soprattutto, chi è Jupiter? Queste le domande che si pongono gli autori dell’inchiesta.

A Bosaso in quei giorni c’è anche un cittadino trapanese, Giuseppe Cammisa, che alcuni testimoni hanno identificato con l’alias «Jupiter». Cammisa era il logista della comunità Saman e sembrerebbe essere coinvolto in un’operazione militare riservata. A un operatore della comunità Saman, Cammisa ha dichiarato di aver incontrato Ilaria Alpi a Bosaso e di averci scambiato una breve chiacchiera. L’inchiesta ripropone l’intervista esclusiva rilasciata a Rainews 24 nel 2011 da Cammisa, ancora in parte inedita.

Cammisa arriva a Bosaso due giorni dopo i giornalisti italiani, con un aereo dell’Unisom partito da Gibuti, quell’aereo proseguiva per Mogadiscio e doveva essere utilizzato da Iliara e Marian per rientrare nella capitale se non fosse che, ancora per motivi ignoti, perdono il volo. Cammisa nega di aver incontrato Ilaria Alpi e di essere coinvolto in quell’operazione militare.

Ventisette anni dopo la verità su quell’agguato non è ancora stata scritta. Il viaggio a Bosaso, il messaggio dei servizi servizi segreti e il ruolo di «Jupiter» sono al centro dell’inchiesta della procura di Roma. Con il format “Spotlight” Andrea Vianello riporta a Rainews24 il giornalismo d’inchiesta di Roberto Morrione. Il servizio di Gaballo e Palladino con la voce narrante di Ottavia Piccolo ricostruisce una delle più clamorose false piste seguite dalla Commissione parlamentare d’inchiesta. Per quell’assassinio il somalo Hashi Omar Hassan ha scontato, ingiustamente, quasi 17 anni di carcere e risarcito con tre milioni di euro. Il reportage di Alpi e Hrovatin non è mai andato in onda, puntava sui traffici illeciti di armi e rifiuti. A cui capo, forse, c’era qualcosa che non poteva essere raccontato.

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