Secondo esperti, sindacati e docenti già specializzati, l’avvio dei nuovi percorsi di formazione sembra più modo che consente al Ministero per nascondere l’incapacità di risolvere i problemi della scuola che per favorire la qualità della didattica e la professionalità degli insegnanti
Un gioco al ribasso. Fatto di scorciatoie e “toppe” utili a coprire il buco invece di sanarlo. Che grava sulle spalle dei precari, come di consuetudine. Portato avanti a discapito di un insegnamento di qualità. È la direzione verso cui muovono le riforme del ministro Giuseppe Valditara a proposito di inclusione a scuola.
Non solo il decreto ministeriale numero 32 di febbraio con cui si demanda alle famiglie la funzione di garantire la continuità dei docenti di sostegno a tempo determinato: «Un provvedimento che rende manifesta l’incapacità di dare continuità all’offerta formativa attraverso la stabilità degli organici. Che produrrà il risultato di sottoporre il lavoro precario a una nuova ricattabilità», aveva commentato Flc-Cgil dopo l’uscita del Dm, che lede la trasparenza delle procedure di reclutamento.
Ora, a minare la fiducia dei docenti in un sistema scuola equo, stanno per contribuire – dopo l’ok dell’Osservatorio per l’inclusione scolastica appena ricostituito da Valditara – i decreti attuativi al dl n.71/2024. Consentiranno a chi ha svolto tre anni di servizio sul sostegno negli ultimi cinque e a chi è in possesso del titolo estero in attesa di riconoscimento o rinuncia al contenzioso con lo Stato, di accedere a percorsi di specializzazione più brevi rispetto a chi per specializzarsi ha seguito il percorso universitario Tfa (Tirocinio formativo attivo) di almeno 8 mesi, pagando 3mila euro.
I corsi annunciati dal dl n. 71 si svolgeranno quasi completamente online, avranno durata minima di quattro mesi, costeranno tra 1.500 euro e 900 in base al numero di crediti di cui gli iscritti avranno necessità. Potranno essere erogati dalle università o dall’Indire, Istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca educativa, che a seguito dello stesso dl l’anno scorso è stato commissariato e ha modificato il suo statuto per prepararsi a offrire i nuovi corsi.
Per Mario Pittoni, responsabile istruzione della Lega, come si capisce dai numerosi post a favore dei corsi Indire, su Facebook e nei gruppi whatsapp, i nuovi percorsi per il sostegno rappresentano un’opportunità di specializzazione per tutti quei docenti «esperti, che non sono bancomat a cui sfilare la cifra più alta», scrive probabilmente riferendosi a chi ha investito soldi e tempo per il Tfa ordinario. Sono «un’inaccettabile scorciatoia», invece, secondo il sindacato Uil scuola Rua che ribadisce la sua contrarietà a percorsi che rappresentano «un’opportunità solo per l’amministrazione», visto che risolverebbero il problema dei circa 10mila docenti che aspettano il riconoscimento del titolo estero o hanno avviato un contenzioso per riceverlo. Della stessa opinione anche Manuela Calza di Cgil scuola che sottolinea anche la pericolosità dell’intervento, «alla luce degli scandali emersi sulla compravendita di titoli acquisiti all’estero, con l’intermediazione di italianissime agenzie cosiddette formative».
A dare forza alle preoccupazioni dei sindacati, secondo cui assumere i docenti specializzati e garantire una più equa distribuzione dei posti del Tfa sostegno sarebbe la soluzione per rispondere ai bisogni dei docenti ma soprattutto a quelli degli alunni con disabilità, ci sono anche le battaglie degli insegnanti già specializzati. Che vedono nei nuovi percorsi Indire «una sanatoria», a scapito della qualità dell’offerta formativa, come ribadisce, ad esempio, il Coordinamento specializzand* organizzat* TFA - Bologna.
«Si sta scatenando una guerra tra ultimi», spiega Dario Ianes, professore di Pedagogia dell’inclusione alla libera Università di Bolzano, convinto però che i corsi «chiamati per brevità “Indire”, anche se potranno essere erogati pure dalle università, soprattutto dalle telematiche che sono già pronte, siano un ulteriore passo per peggiorare un sistema in crisi». Per il professore serve un cambio di paradigma completo. Perché il vero problema è che non è più possibile concentrare tutto il peso dell’inclusione sulle spalle di un singolo insegnante.
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