Una domenica strana: siamo seduti nello spogliatoio e, per una volta, non siamo tranquilli. Il più arrabbiato di tutti è il Mancio: si leva gli scarpini, si strappa i calzettoni, furioso. L’hanno espulso un minuto fa. Lui e lo Zio, Bergomi. E così giocheremo tutto il secondo tempo dieci contro dieci. È la partita decisiva, dicono tutti. E infatti Mancio si siede, impreca, getta via con rabbia i calzini e dice che non gli è mai piaciuto lo spogliatoio di San Siro. E che non gli piacerà mai. Nessuno degli altri quindici gli dà retta per davvero.

Ce ne stiamo zitti, più o meno. Siamo ancora 0-0, ma l’Inter sta giocando al tiro a segno. Quindici tiri in porta loro. Zero noi. Però, Mancio o non Mancio, siamo ancora qui, tutti e sedici. Gli stessi che sono partiti. Così abbiamo iniziato e così vogliamo finire: non uno in più e non uno in meno. È così che funzionano le cose alla Sampdoria: non si lascia indietro nessuno.

C’è sempre chi non è d’accordo, chi è timido, chi fa troppo casino, chi è disordinato, chi è preciso, chi impreca, chi ribatte, chi se ne sta in centro a prendersi le botte e chi preferisce stare seduto in un angolo a coltivare le sue ombre. Ma sempre insieme. Abbiamo riso, scherzato, sudato, ci siamo allenati, gli italiani hanno imparato a capire un po’ di slavo e gli slavi hanno imparato a parlare un po’ di italiano. In squadra ci sono l’est e l’ovest, e c’è anche un pizzico di Brasile. Siamo stati a pranzo e a cena sempre nei due o tre ristoranti di Genova a cui diamo del tu, sulla terrazza davanti al mare, o sotto la luna piena, a volte fino a notte fonda, anche in quei venerdì quando non avremmo dovuto farlo (vero, Toninho?), ma c’era da finire un ultimo giro di controllo della città. Ci siamo nascosti negli armadi e negli appartamenti, abbiamo fumato in segreto una sigaretta o due, e comunque mai quando c’era il presidente. E se adesso siamo qui, impauriti, arrabbiati, dubbiosi, è merito suo.

Che stagione che è stata. C’è chi, per viverla, si è rifiutato di partire anche se era già stato venduto. Chi, arrivato, ha avuto nostalgia e per un po’ ha giocato con due maglie, la vecchia sotto quella blucerchiata. C’è chi è rimasto sorpreso di come eravamo davvero. E chi alle sorprese continua a crederci, anche se è qui da anni. Parliamo molto, anche se non abbiamo grandi cose da dirci. A volte abbiamo ragione, a volte torto, ma ci diciamo le cose in faccia, ci mandiamo a quel paese e poi ci andiamo a riprendere, perché nessuno merita di restarci troppo a lungo. Siamo giovani compagni di squadra, siamo amici. E non abbiamo paura di questa parola.

Non credete a chi vi dice che il calcio è una guerra. È uno sport, un gioco, e ai giochi si gioca con gli amici. È un valore, e quello che vale si vede in momenti come questo, quando lo puoi scambiare con gli altri. Quando entra, il Mister si piazza in mezzo allo spogliatoio: «Adesso non dite che voi afete paura». E lui non è uno che di solito parla, tra un tempo e l’altro. Il Mancio si siede. Lo ascolta. E anche questo è insolito, perché oggi è un po’ tutto diverso. «Non è voi che avete paura. È loro che è dietro in classifica», dice Boškov a tutti noi. «È Inter che deve afere paura. Non Sampdoria. Con Pagliuka di oggi, noi non possiamo perdere. E con Vialli così davanti, anzi, io penso ke possiamo vincere, o al massimo pvò finire 0-0 y pareggio è ankora bvono per noi». E mentre parla ci guardiamo, seduti, sporchi, sudati, tristi, felici. Le sue parole ci entrano nel cuore, fanno il giro della pancia, dei muscoli, dei lividi.

Il mondiale incastrato

Ci sono volti abbronzati, abbracci, strette di mano, l’atmosfera è quella del primo giorno di scuola, di chi è felice di ritrovarsi e non vede l’ora di ricominciare. C’è qualche prevedibile eccezione. E altre un po’ meno. I due nell’angolo, per esempio, sono il Mancio, che sembra avere altro per la testa, ma lui ha sempre qualcosa d’altro per la testa, anche quando si gioca, e Vierchowod, lo Zar, come lo chiamano da queste parti, più ombroso del solito, nemmeno ci fossero i bolscevichi alle porte. Non ci vuole un indovino per capire che il Mondiale gli è rimasto incastrato tra i denti, e non c’è modo di levarselo.

Senza filtri

Quanto al Mancio, il gemello di gioco di Luca, il più raffinato degli Azzurri, al Mondiale non è sceso in campo nemmeno mezzo minuto, messo ai margini come se fosse un ragazzino, un inutile orpello. Una cosa davvero imprevedibile, per il più imprevedibile del gruppo. Il Mancio è uno che dice sempre quello che pensa mentre ancora lo sta pensando. Non ha filtri. E non sempre è un bene.

Bosotin e Rossi

Accanto a lui ci sono i due magazzinieri. Bosotin, sempre spavaldo, con il piglio di chi è stato pugile, parà, ultrà e chissà che altro, e Rossi, più flemmatico, riflessivo, ma attento a ogni particolare. Stanno avvitando i tacchetti agli scarpini. Già sapendo che il Mancio glieli farà cambiare almeno tre volte. «Giusto? Ora si vedono vuomini. Bisogna giocare uno per l’altro: voglio undici Bosotin, undici Rossi, undici ke si fanno kulo». E mentre lo dice i suoi occhietti passano da Branca al Mancio e dal Mancio a Branca.

I due hanno qualcosa di simile. Giocano davanti, Branca è un centravanti puro, Mancio è tutto il resto. Sono entrambi veloci, tecnici, taciturni. Con una differenza. E non parliamo di piedi o di intuizioni. Quando il Mancio è in campo diventa una creatura diversa. Tutto il tempo che fuori è rimasto zitto, ad ascoltare, a guardare sbieco, a pensare ad altro, diventa un fiume di parole. Parla, grida, spiega, protesta, insulta. Se vede la squadra troppo sulla difensiva comincia a sbraitare. Chiama tutti avanti, urla. Se gli lanciano troppo corto, urla. Se è lunga, urla, si infuria. Vuole che le cose siano perfette, come le vede lui, come sa farle lui. Ma gli altri non sono lui. A volte non ci riescono. E altre non le vedono proprio, e basta. È un genio?

Mancio ci rimugina, su questa frase di Boškov, sugli undici magazzinieri in campo, cerca di capire quello che il Mister ha detto senza dire. Un magazziniere non è un genio, ma può esserlo. È uno che lavora tanto, che è preciso, altrimenti sono tutti fottuti. Uno che lavora per gli altri. A servizio della squadra. E così il Mancio scende in campo. Gol del vantaggio al 27simo, con una punizione sporcata dal difensore De Patre. E, dopo il pareggio di Evair, due assist due per Branca, che la mette in rete in entrambi i casi. Il Mancio se la ride. E Boškov insieme a lui. Gli allunga la mano, ha capito il messaggio. Prepara tutto per gli altri. E gli altri saranno felici. Tutto vero. Ma quando all’85 fischiano rigore per la Samp, è Roberto che va a batterlo. Gli assist sono una cosa. Belli, bellissimi, ma la rete che si gonfia perché la palla l’hai tirata tu, pulita, senza deviazioni, superando tutti quelli che ci sono nel mezzo, be’, quelli sono...prende la rincorsa...esita...piatto destro...altra cosa.

E via la prima.

E il lunedì dopo il 4-1, nello spogliatoio, Boškov si presenta all’allenamento arrabbiato, quasi cupo. L’unica cosa di cui parla è il gol di Evair. «Grande sqvadra non prende qvesti gol. Ad Atene y a Milano serve molta più attenzione e dissiplina. Chi ha sbagliato?». Dove. Parla! Dissiplina, concentrazione, attenzione.

Scala di incazzatura

«Se giochiamo così a San Siro ce ne fanno tre!», urla il Mancio. «Altro che tre! Ce ne fanno quattro! Ma l’hai visto? Toninho?”, risponde Luca, che sotto la tuta ha ancora il costume da bagno. Per cercare di recuperare, si sta allenando in piscina sotto la supervisione di Mino Marsili, ex leggenda della pallanuoto italiana, allenatore del Bogliasco e amico di entrambi i gemelli del gol. Non può caricare troppo il ginocchio, a parte nuotando. «L’ho visto bene, oggi!». «L’hai visto bene perché è sempre fermo», risponde il Mancio, lanciando gli scarpini contro l’armadietto, a due centimetri dalla testa di Luca. Da fuori, un paio dei compagni fanno cenno a Pietro, di guardia alla porta, per sapere a che punto siamo. Pietro fa due volte il segno tre con le dita, cioè che siamo a un livello sei sulla scala di incazzature del Mancio. Poi si corregge e aumenta il livello di due. Livello uno: va tutto bene.

Livello due: qualcuno sbaglia un passaggio. Livello tre: qualcuno ha sbagliato a passare la palla a

Mancini. Livello quattro: non gli hanno fischiato un fallo a favore.

Livello cinque: gli hanno fischiato un fuorigioco. Livello sei: i compagni non stanno facendo quello che dovrebbero fare. Livello sette: i compagni non hanno capito quello che Mancini sta per fare.

Livello otto: non c’è nessuno che corra dietro alla palla.


Roberto Mancini, Gianluca Vialli e i calciatori della Sampdoria campione d’Italia sono autori del libro La bella stagione, edito da Mondadori

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