Quarantanove anni dopo Adriano Panatta, c’è di nuovo un tennista italiano nella partita che assegna il titolo dello Slam sulla terra rossa di Parigi. Il numero 1 del mondo ha battuto in tre set Novak Djokovic. L’avversario sarà lo spagnolo Carlos Alcaraz come a Roma: ha eliminato nell’altra semifinale Lorenzo Musetti, costretto al ritiro.
Sinraz, dodicesimo atto. La finale del Roland-Garros sarà la replica di quella di Roma: Sinner contro Alcaraz, i due che si sono fatti carico di rinverdire la tradizione dl Fedal, l’eterno duello fra Federer e Nadal diventato paradigma della rivalità sportiva sotto ogni profilo. Carlos è avanti 7-4 nel bilancio, sulla terra Jannik lo ha battuto solo una volta a Umago nel lontano 2022.
Sinner ha superato (6-4 7-5 7-6) il miglior Djokovic osservato da molto tempo a questa parte, facendo suo il motto del Thanos del Marvel Universe: io sono ineluttabile. Come il tempo.
Per di più un ineluttabile nemmeno al massimo della sua potenza, come se una fettina di patè de fois gras in semifinale contro Djokovic gli avesse imposto una digestione difficoltosa.
Eppure tanto è bastato per trascinare Jannik alla seconda finale Slam dell’anno, la prima della vita a Parigi, primo finalista italiano al Roland-Garros dal 1976, quando Panatta conquistò il titolo. Se dovesse vincerla, gli permetterebbe di guardare all’obiettivo degli obiettivi – Il Grande Slam – con sguardo razionale e non solo emotivo. Ma Nole, vincitore di 24 titoli, anche se ha a che fare non con un Thanos ma con due, non è ancora pronto per la pensione.
Anche lui può razionalmente guardare alla possibilità di conquistare tra Wimbledon e New York il venticinquesimo titolo major. Quello che potrebbe coincidere con la sua venticinquesima ora, il momento in cui ci si ferma per capire cosa verrà dopo. Non sfugga la coincidenza: mentre sullo Chatrier Sinner annullava a Djokovic tre set point che avrebbero potuto riaprire il match, la malcapitata Italia del pallone subiva tre reti dalla Norvegia nella prima partita di qualificazione per i Mondiali. I tempi cambiano. E quasi mai nella direzione immaginata.
Il ritiro di Musetti
La finale tutta italiana non ci sarà, ma in fondo non è un problema. Così la costruzione della storia perfetta potrà continuare con nuova forza, spostando sempre più in alto l’asticella. Quando due italiani arriveranno in finale in un torneo dello Slam, quando Lorenzo Musetti scalerà quell’ultimo gradino che gli permetterà di conquistare uno dei tornei più importanti, quando, quando, quando declamerebbe Tony Renis…
Qualcuno dopo il ritiro pomeridiano di Lorenzo contro Alcaraz ha ipotizzato che il vero problema, potenzialmente di complessa risoluzione, stia nella tenuta fisica e forse psicologica del carrarino. A suscitare il sospetto è il fatto che Lorenzo ha dovuto abbandonare la partita e il campo a metà dell’opera o giù di lì, in momenti importanti, e non per la prima volta. Era già successo proprio al Roland-Garros contro Djokovic quando era poco più che un ragazzino di bellissime speranze, anche se in vantaggio di due set; a Roma l’anno scorso contro Atmane dopo aver perso il primo; al Queen’s nel 2022 contro Bublik dopo una caduta, a Madrid contro Zverev sempre per una coscia dolorante.
A Montecarlo quest’anno nella finale contro Alcaraz è rimasto in campo per onor di firma subendo un 6-0 nel set decisivo. Di certo si può dire che il talento puro ha un costo: quello che Musetti paga potrebbe avere un’origine mentale nel senso che sostenere quel tipo di gioco soprattutto contro giocatori di pressione superiore è faticoso assai. E se bisogna restare sopra il livello per ore, onde evitare di essere travolti, allora può darsi (può darsi) che il corpo diventi più fragile e tenda all’infortunio.
Il suo tallone d’Achille pare essere di casa nei muscoli della coscia: è lì che si deposita il peso di una lotta che in altri tempi, grazie alle doti artistiche, non sarebbe stata necessaria. Si deposita e frena. Ma non sarà sempre così, bisogna esserne certi.
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