Questa è la storia di un sorpasso imprevisto, la storia dell’improbabile pallacanestro di New York che ha scavalcato la passione per il baseball e per il football.

Non mancano le squadre d’alto livello in città, ma nessuna oggi è più simpatica dei Knicks. Quelli che non mettono un titolo in bacheca da 50 anni e hanno collezionato non sconfitte, ma veri e propri fallimenti in serie negli ultimi 20 anni, tra ingaggi di fiaschi e melodrammi delle proprie star, con conseguente snobismo di tutti i migliori della Lega; gettando nello sconforto anche i più incalliti tifosi del Madison Square Garden, «the world’s most famous arena».

Dopo le ultime stagioni non così terribili, qualcosa sta cambiando: l’entusiasmo si sta riaccendendo a livelli visti in questo secolo solo nei due mesi della contagiosa “Linsanity”, la passione per Jeremy Lin, simbolo della comunità asiatico-americana, lontano dai pregiudizi a loro associati.

È tornata la follia collettiva per la pallacanestro, in una città che sta abbracciando una versione nuova della sua squadra, la più divertente dei playoff, certamente la preferita dello star-system americano.

La stella

Il simbolo principale di questa rinascita risponde al nome di Jalen Brunson, diventato l’atleta di punta in città. È meno egocentrico del quarterback Aaron Rodgers dei Jets nel football, più empatico dell’esterno Aaron Judge degli Yankees nel baseball, più affidabile di qualsiasi giocatore dei Giants o dei Mets.

Scelto solo al secondo giro del draft 2018 dai Mavericks, li ha lasciati dopo 4 stagioni, per non restare all’ombra dell’asso Luka Dončić. I dubbi su di lui sono continuati dopo il suo arrivo a New York da free agent, con un contratto ritenuto pesante per quanto dimostrato sino a quel momento e tanto scetticismo sul ruolo da leader pensato da dirigenza e staff tecnico (compreso suo padre, assistente allenatore).

Invece si è scoperto un gigante sul parquet, con la sua altezza sotto il metro e 90 che lo rende ben più basso della media. Nei due anni ai Knicks ha vinto più serie di playoff che tutta la franchigia dal 2001. Fino all’esplosione di queste settimane: non è solo il “semplice” miglior marcatore, ma sta mettendo assieme numeri dalla portata storica: basti pensare che è diventato l’undicesimo giocatore nella storia con 5 gare da almeno 40 punti segnati in un singolo playoff, insieme a gente come Michael Jordan e LeBron James, Kareem Abdul-Jabbar e Shaquille O’Neal.

Tra i campioni presenti in quella lista, Brunson ricorda Allen Iverson, catalizzatore di responsabilità offensive e ispiratore per tanti ragazzi, un’icona nella sua scalata da underdog fino alle finali del 2001, un immarcabile attaccante sottotaglia che trovava sempre una strada per arrivare al canestro.
Intorno a Brunson si muove un gruppo di giocatori senza quel talento che acceca e produce highlights, ma gente con una grinta, una combattività e un senso del collettivo che consente di superare i limiti individuali. Partendo da Josh Hart, letteralmente sempre in campo, guardia fatta di titanio e senso del gioco, il miglior rimbalzista della squadra; fino all’asso difensivo OG Anunoby, passando per quel Dontae DiVincenzo che l’Italia vorrebbe naturalizzare, sempre più continuo. Miles McBride era una riserva, diventata di forza un jolly importante in pochi mesi, il centro Isaiah Hartenstein era il terzo nel ruolo e ora è insostituibile.

Tom Thibodeau, l’allenatore, è un tipo spesso discusso per la tendenza a usare fino allo stremo i suoi giocatori in ogni partita, per una pallacanestro compassata e non ariosa, in controtendenza rispetto ai trend attuali. Sembra complicato che i Knicks possano trionfare, stanno contendendo agli Indiana Pacers un posto nella finale di Conference contro i Boston Celtics. Ma hanno risvegliato il basket in città. Considerati gli animi induriti da anni e anni di fallimenti, si tratta di un successo ancora maggiore.

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