Qual è la vostra esperienza con lo smart working? Le vostre aziende lavorano per renderlo uno strumento strutturale? Vi sembra una situazione equa e giusta o vorreste che alcuni dettagli venissero ridiscussi e adeguati alle vostre esigenze? Aspettiamo le vostre storie.

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Il futuro è nel segno dello smart working, ma non di quello a cui ci stiamo abituando in questi mesi. Perché l’adeguamento forzato a un telelavoro reinventato dalla sera alla mattina a causa della pandemia, per lo più organizzato con i mezzi propri dei dipendenti non è un vero modello di lavoro da remoto. È vero che i cambiamenti hanno già portato vantaggi a tutte le parti coinvolte, ma il bilancio finale dei benefit che ottiene il dipendente lavorando da casa è decisamente più magro dei risparmi che può portare a casa l’azienda, specialmente in prospettiva.

Come potrebbe essere

«Dagli studi emerge un aumento del benessere del lavoratore con lo smart working grazie a un migliore bilanciamento dell’equilibrio vita-lavoro», dice Paola Profeta, associata del dipartimento di Scienze sociali e politiche dell’università Bocconi. Ma il vero smart working non è quello che si è imposto con la pandemia: «Per completare la transizione servirà un forte salto tecnologico, che andrà governato per non aumentare le disuguaglianze tra le diverse categorie». In particolare per quanto riguarda il gap di opportunità tra uomini e donne, che il lavoro da remoto può aiutare a colmare. Sempre che non si trasformi in un recinto riservato alle donne che, soprattutto in Italia, devono conciliarlo con il lavoro domestico che continua a gravare su di loro.

Per fare il vero salto di qualità sarà anche necessario cambiare la cultura aziendale, implementando sempre di più un modello di valutazione che guardi agli obiettivi da raggiungere più che alla quantità di ore lavorate.

«Una transizione spesso difficile da gestire, soprattutto per le piccole e medie imprese», dice Valerio De Stefano, professore di Diritto del lavoro all’università di Leuven, in Belgio. «È una scelta necessitata, ma d’altro canto non si può neanche tradurre in un lavoro a ogni ora del giorno, non si può essere sempre connessi».

Oltre agli aspetti pratici, il problema principale per gestire un cambiamento così vasto è la mancanza una base legislativa che lo renda strutturale.

Gli adeguamenti che aziende e dipendenti hanno dovuto fare durante il primo lockdown e che stanno riprendendo in questo secondo periodo di chiusure locali sono spesso stati gestiti in maniera informale, senza che prima ci fosse una contrattazione sindacale o un accordo personale come prevede la legge: la deroga per l’utilizzo della “procedura semplificata” (cioè senza necessità di compromessi individuali) è stata prolungata dal ministero del Lavoro fino al 31 gennaio.

Il quadro normativo

In realtà il quadro normativo su cui costruire ci sarebbe pure. Nel 2017 il governo Gentiloni ha prodotto la prima legge che incentiva il lavoro agile. Per lo smart working il testo prevede una trattativa singola dell’azienda con ogni lavoratore. Attualmente il tavolo a tre tra associazioni datoriali, sindacati e ministero è sospeso a causa della pandemia ma, spiegano dal ministero, riprenderà dopo l’approvazione della legge di Bilancio. Cioè non prima di gennaio.

Continuano invece, secondo quanto riferisce la Cisl, alcune trattative con singole aziende che si vanno ad aggiungere ad accordi sul telelavoro preesistenti (conclusi soprattutto con imprese di grandi dimensioni, che hanno introdotto lo smart working già anni fa). La contrattazione collettiva, pur rappresentando un ambito in cui è difficile fissare delle soglie di telelavoro accettabili per tutti, potrebbe essere però il luogo in cui introdurre la difesa di alcuni diritti minimi, come quello alla disconnessione.

Uno dei problemi principali che vengono infatti registrati dai sindacati è la tendenza a intendere il lavoro da casa come una deroga totale ai limiti dell’orario di lavoro. Forse anche per sfruttare al massimo la maggiore produttività dei dipendenti. Secondo i primi risultati di un sondaggio dedicato allo smart working realizzato da McKinsey, i lavoratori rilevano un aumento dell’efficienza propria e dei colleghi, anche perché investono il tempo che altrimenti impiegherebbero per gli spostamenti in ulteriore impegno per l’azienda.

Tutto questo, però, produce anche una mania di controllo che in futuro potrebbe rappresentare un vero problema. Gilberto Gini è il responsabile nazionale della Smart workers union, il primo sindacato digitale d’Italia, nato poco prima della pandemia che oggi ha già quasi un migliaio d’iscritti. «Anche in Italia – dice – si comincia a parlare dei cosiddetti bossware (i software che controllano attenzione e abitudini dei dipendenti, ndr), ma grazie alla legge europea sulla privacy e al nostro statuto dei lavoratori ci sono moltissime limitazioni per il loro uso. Con l’aumentare del lavoro da remoto le spinte per controllare i lavoratori e carpirne i dati richiederanno da parte del sindacato una nuova tutela per i propri associati».

Costi fissi

L’altra grande questione che andrà chiarita, una volta usciti dalla pandemia, sarà quella dei costi fissi che prima ricadevano sul datore di lavoro e oggi pesano sullo smart worker: attrezzatura, dotazioni da ufficio, bollette e così via. Una serie di spese che nel periodo del primo lockdown sono rimaste tutte a carico dei dipendenti. Un’ingiustizia che però ha permesso a tante aziende di non sospendere il lavoro. «Durante l’emergenza il dipendente va a perdere, ma se ben negoziato il regime di smart working può essere organizzato tenendo conto delle esigenze di tutti, intervenendo per esempio il lavoro senza limiti e risolvendo la questione dell’aggravio di spese», dice De Vincenzo.

Altri governi sono già intervenuti in questa direzione. Secondo l’istituto olandese Nibud, un organismo di ricerca statale che fornisce informazioni e consulenza sulle finanze delle famiglie, il costo dello smart working in termini di spese quotidiane è di due euro. Un dato che è già stato registrato dal governo dell’Aja che ha provveduto, fin da marzo, a corrispondere un incentivo di 363 euro mensili ai dipendenti pubblici in smart working. Secondo il Nibud, dovrebbe essere sempre il datore di lavoro a occuparsi anche di attrezzatura e altre dotazioni da ufficio.

Anche il resto d’Europa si sta attrezzando: in Spagna è stata approvata una legge che obbliga le aziende a finanziare costi e attrezzature necessari al telelavoro, mentre il Bundestag tedesco sta discutendo una legge per fissare i diritti minimi degli smart worker. In Francia è arrivato il via libera a un limite di orario d’invio per le mail.

In Italia il contributo per l’acquisto di nuove dotazioni non l’ha avuto praticamente nessuno. Neanche la quasi totalità dei dipendenti di Unicredit attualmente in smart working. «Ci siamo però impegnati per concludere convenzioni vantaggiose per le necessità dei nostri lavoratori e abbiamo speso molto in laptop e licenze» dice Emanuele Recchia, responsabile relazioni sindacali e welfare del gruppo bancario.

Gli unici a mantenere un obbligo di presenza (per quanto gestito con una turnazione) sono i dipendenti attivi nelle agenzie, considerate attività essenziali. Intanto l’azienda ha deciso di chiudere temporaneamente alcune sedi regionali rimaste praticamente vuote e la prospettiva è quella di un regime misto tra remoto e presenza. «Lo smart working prevede un’alternanza della situazione in cui si lavora», dice la professoressa Profeta. Ma anche in Unicredit ormai capita addirittura che le persone vengano assunte o passino da un team all’altro senza che ci sia mai un incontro fisico coi colleghi. «È un eccesso che non fa bene, come anche quello di presenza, si fa difficoltà a fare gruppo», continua la professoressa. Per ricreare un ambiente di lavoro stimolante la banca ha cercato di implementare nuove abitudini, come i caffè virtuali o una etiquette per la gestione dei sottoposti da parte dei responsabili.

Non è prevista attualmente una data di rientro per chi sta lavorando da casa, e la consapevolezza che il modello misto diventerà strutturale è diffusa anche in altre grandi aziende italiane, come Eni, che attualmente in Italia fa lavorare da casa 15mila persone e prevede che in futuro circa un terzo dei dipendenti calcolati su un singolo giorno possa lavorare da remoto. Anche Enel ha trasferito il 55 per cento dei suoi dipendenti in telelavoro, completando l’equipaggiamento di chi non era ancora pronto a lavorare da casa nelle prime due settimane. Intesa Sanpaolo aveva già stanziato nel triennio 2018-2021 3 miliardi di euro per la digitalizzazione e oggi lavorano da remoto 63mila dipendenti su 90mila.

Un gigante della consulenza come Accenture, che pratica lo smart working fin dal 2009 e a inizio pandemia ha messo da subito in telelavoro i suoi 17mila dipendenti in Italia, ha sviluppato un programma in cinque punti, che oltre all’attenzione al dipendente e allo spazio di lavoro fa perno anche su una riorganizzazione flessibile che possa essere adeguata in maniera veloce alle esigenze del momento, anche in vista del futuro a lungo termine. Almeno per ora le più flessibili sembrano essere le grandi aziende. Di quelle che abbiamo interpellato alcune utilizzano sistemi di autocertificazione per segnalare la presenza (Eni), ma c’è tolleranza sugli orari. Fin quando i risultati arrivano.

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