Qualcosa si muove nel turbolento mondo dei pronto soccorso italiani. È merito della Regione Lombardia che nei giorni scorsi ha approvato un’importante deliberazione sul riordino della rete ospedaliera di emergenza-urgenza.

Il corposo documento, redatto con la collaborazione di un gruppo di lavoro tecnico che si occupa finalmente con continuità del problema, affronta tutti i nodi principali della crisi proponendo risposte  definite a un buon livello di dettaglio. 

Un passo avanti

Senza entrare nei particolari tecnici della delibera, basti dire che vengono considerati i problemi legati alla struttura e all’organizzazione dei dipartimenti d‘urgenza, ai compiti e alla formazione dei professionisti, al ruolo che le direzioni ospedaliere e gli altri dipartimenti clinici devono svolgere per contribuire alla risoluzione dei problemi.

Tra le tante indicazioni, una affronta il tema centrale della lunga permanenza (anche giorni) in pronto soccorso di chi ha bisogno di ricovero e attende un posto letto. Si afferma che l’attesa non dovrà superare le 8 ore e che la temporanea mancanza di letti liberi in reparto non potrà essere considerata una scusante.

Tutto ciò non risolverà come per incanto una situazione fortemente compromessa come quella dei pronto soccorso, perché restano da affrontare i nodi fondamentali della carenza di personale e delle risorse economiche limitate. Il decreto definisce però un percorso e questo non è poco per un Paese come il nostro, abituato a proclami roboanti nelle affermazioni di principio quanto vaghi nei particolari della loro applicazione pratica.

Se posso provare a riassumere in una sola frase lo spirito del documento lombardo, direi che riconosce e afferma con chiarezza che i problemi del pronto soccorso sono lo specchio del malfunzionamento degli ospedali (e del territorio)  e che di conseguenza tutti devono partecipare ad uno sforzo collettivo per risolverli.

La crisi degli ospedali

Dispiace notare che subito dopo la pubblicazione della delibera sulla Gazzetta della Regione Lombardia è iniziato il balletto dei distinguo e delle prese di distanza. Tra le prime a pronunciarsi sono state le principali società sindacali e scientifiche della medicina interna.

Anche in questo caso non voglio entrare in dettagli, quello che mi sembra essere il messaggio di fondo che viene dagli internisti: «Abbiamo già i nostri problemi, non possiamo accollarci anche quelli degli altri». Non si può certo affermare che non ci sia un fondo di  verità. La crisi  degli ospedali interessa molti reparti.

I medici non fuggono solo dai pronto soccorso (non si parla per esempio abbastanza della crisi profonda che stanno attraversando i reparti di psichiatria) e l’attrattiva della medicina interna tra i giovani medici è in netto calo rispetto a dieci anni fa, quando era in assoluto la scelta più gettonata. 

Crescono invece le richieste per l’endocrinologia, la dermatologia, la chirurgia plastica, l’oftalmologia, l’otorinolaringoiatria, tutte specializzazioni che consentono ampi spazi di libera professione e non obbligano a pesanti turni di lavoro festivo e notturno in ospedale. 

Sarebbe però poco lungimirante derubricare tutto questo alla scarsa propensione dei giovani per un lavoro faticoso e relativamente poco remunerativo. È invece il segno preoccupante di un sistema in procinto di affondare che i topi (mi scusino i colleghi!) stanno abbandonando la nave prima che sia troppo tardi.

Bisogna dunque che non solo i cittadini, ma anche i professionisti della salute si uniscano per difendere il servizio sanitario nazionale e per sostenere tutte le iniziative che vanno in questo senso, da qualunque parte vengano, evitando di beccarsi fra loro come i proverbiali polli di Renzo. I distinguo che si fanno  oggi tra emergentisti e internisti non sono molto diversi da quelli che in altro ambiti dividono i medici ospedalieri da quelli del territorio.

Ognuno ha certamente il diritto di manifestare le proprie ragioni, ma ostacolare i possibili avanzamenti in un settore, soprattutto se centrale come quello della emergenza-urgenza, adducendo le attuali criticità di altri settori del sistema è un atteggiamento miope che rischia solo  di condurre a uno sterile immobilismo. Se si vuole lavorare per il miglioramento è necessario rimuovere gli ostacoli e non utilizzare le criticità attuali come freno delle potenzialità future.

A ciascuno il suo

Mentre la Regione Lombardia dovrà dimostrare di essere capace di tradurre i contenuti della sua delibera in iniziative concrete (che si spera interesseranno gli ospedali privati quanto quelli pubblici), le altre Regioni dovrebbero confrontarsi seriamente con un progetto che meriterebbe di essere prontamente condiviso in tutta Italia.

I medici e le loro organizzazioni dovrebbero sostenerlo compattamente, continuando allo stesso tempo a indicare possibili soluzioni per gli altri problemi che interessano la sanità pubblica e appoggiandole al di là degli steccati di categoria e dei possibili interessi di parte.

È ovvio che da tutto questo il governo non può restare fuori. Il destino del servizio sanitario pubblico, e non solo dei pronto soccorso, sarà infatti segnato se il finanziamento del fabbisogno sanitario nazionale standard, a cui concorre lo stato, non crescerà progressivamente fino a raggiungere una percentuale del prodotto interno lordo almeno pari alla media europea e se non verrà  superato il vincolo di spesa delle Regioni  per il personale del Ssn che è imposto con legge nazionale.

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