Nel corso del 2020, la popolazione in Italia è calata per il sesto anno consecutivo. Al primo gennaio di quest’anno, i residenti nel nostro paese erano 59 milioni e 259mila, una diminuzione di 384mila individui rispetto all’anno precedente.

Pochi giorni fa sono stati pubblicati i dati dell’ultimo censimento degli Stati Uniti: quello concluso con il 2020 è stato il secondo decennio con la crescita più bassa di tutta la storia del paese. Le ragioni: riduzione della natalità e diminuzione nel numero di immigrati.

La denatalità è ormai una caratteristica sempre più comune in tutto il mondo industrializzato. Nell’Unione Europea il numero medio di figli partoriti da ogni donna, è pari a 1,54, molto inferiore al cosiddetto «tasso di sostituzione», pari a 2,1 figli per donna, che serve a mantenere stabile la popolazione. In altre parole, dal Canada al Giappone, passando per Australia e Nuova Zelanda, i paesi più ricchi sono tutti avviati verso un più o meno lento declino demografico.

Desiderio o costrizione?

Non si tratta di un problema delle donne o delle loro scelte personali, ma di un fenomeno vasto, con cause profonde e di lungo periodo. Una delle principali caratteristiche della fertilità è che sembra declinare all’aumentare del reddito. Questa considerazione è stata spesso usata per sostenere che la denatalità è causata più o meno direttamente dall’emancipazione delle donne.

Ma queste osservazioni ignorano che anche nei nostri paesi benestanti, le coppie riescono ad avere meno figli di quelli che desiderano. Lo ha ricordato ieri il presidente del Consiglio Mario Draghi, nel suo intervento agli Stati generali della Natalità, a Roma, un evento a cui ha partecipato anche papa Francesco.

«Le coppie vorrebbero avere più figli di quelli che effettivamente hanno – ha detto Draghi – In Italia, questa differenza è molto ampia. Le coppie italiane vorrebbero in media due figli, ma ne hanno, sempre in media, meno di 1,5».

Le cause

La crescita dell’occupazione femminile è stata uno dei grandi fattori di emancipazione dell’ultimo secolo (anche se l’Italia rimane tra i paesi europei più arretrati in questo campo, con il 50 per cento delle donne occupate, contro una media europea di più del 60). Ma spesso, l’accesso al mondo del lavoro ha costretto le donne a scegliere tra famiglia e carriera.

L’occupazione femminile, ad esempio, raramente è stata bilanciata da una maggiore collaborazione degli uomini nella cura della casa e dei figli. Secondo l’Istat, nella fascia d’età 25-64 anni, le donne impiegano più del 20 per cento del loro tempo in lavoro familiare, contro poco più del 7 per cento del tempo degli uomini.

Questa situazione è spesso esasperata dal fatto che anche nel mondo sviluppato sono pochi i paesi che hanno istituito un sistema di congedi di paternità che possa rendere più facili agli uomini sospendere il lavoro per aiutare nella cura familiare. In Italia, ad esempio, le donne sono obbligate a prendere almeno cinque mesi di congedo parentale, gli uomini soltanto dieci.

Un altro fattore che viene spesso indicato è che negli ultimi decenni il mondo del lavoro è diventato più precario e molte coppie che appartengono alle classi medio base faticano ad avere la stabilità economica necessaria a pianificare la costruzione di una famiglia. Insicurezza economica e precarietà sono citati come le principali ragioni per non avere figli dal 74 e 70 per cento dei rispondenti a un sondaggio Swg.

A questo si aggiunge ancora la mancanza di infrastrutture, come gli asili, e di sgravi e incentivi che possano rendere più semplice ed economica la gestione dei figli. In Italia, gli asili hanno poco più di 350mila posti che hanno posto per appena il 25 per cento del totale dei bambini che potrebbero usufruirne.

Le conseguenze

Fare pochi figli significa, nel medio e lungo periodo, avere una popolazione sempre più anziana, quindi meno persone attive nel mondo del lavoro e che possono prendersi cura degli anziani sempre più numerosi.

Indirettamente, significa che cresce il numero di persone che consumano reddito, gli anziani che hanno smesso di lavorare, rispetto a chi lo produce.

Il Giappone è il paese simbolo di questa situazione. Circa un quarto dei suoi abitanti ha più di 65 anni. Le imprese faticano a trovare dipendenti, soprattutto per quegli impieghi a più alta intensità di lavoro manuale. La popolazione anziana risparmia molto, ma spende e investe poco.

Soluzioni

Per evitare una «giapponesizzazione» dell’economia la ricetta più semplice sembra quella di incrementare la natalità, un obiettivo nient’affatto semplice. Aumentare gli aiuti economici alle famiglie, facilitare e allungare i congedi parentali, anche per gli uomini, cercare di abbattere le barriere culturali che riservano gran parte del lavoro di cura alle donne, sono tutte strade percorribili.

I paesi nordici, come Svezia e Danimarca, sono probabilmente tra i più avanzati al mondo in questa strada. In Svezia, ad esempio, il contagio parentale è pari 240 giorni per genitore, per un totale di 480 giorni. Queste misure sembrano contribuire al tasso di natalità che in Svezia è pari a 1,76 figli per donna e a 1,74 in Danimarca. Ma per quanto siano tra i tassi più alti dell’Unione Europea, sono comunque inferiori al tasso di sostituzione.

L’altra soluzione e quella che produce i risultati più immediati ed evidenti, è l’immigrazione. Aumentare la popolazione attraverso politiche di immigrazioni efficaci che possano attrarre persone e talenti nelle società più anziane sembra la soluzione più rapida. Tutte queste soluzioni non sono gratis, ma aumentare la spesa pubblica destinata a famiglie e figli (l’1 per cento del Pil, nel 2019) potrebbe essere già qualcosa.

© Riproduzione riservata